Il salotto di Margherita Sarfatti,
di Simona Urso
tratto dal sito Antenati
In molte ricerche spesso quando si
parla di salotti si allude ad una
dimensione della sociabilità
borghese, e ad una nuova funzione
femminile, a modelli e rituali che
attraversano i decenni e mutano. In
altri casi studiare i salotti
significa studiare quanti li
frequentarono, i cenacoli culturali
e intellettuali che vi si formarono,
i reticolati di saperi e conoscenze
che vi si attivarono: in generale,
come è noto, il salotto risponde ad
una triplice funzione: informativa,
formativa e legittimante. Se questo
è vero per i salotti ottocenteschi
[1] , che sono parte di
un processo di costruzione
dell’identità borghese, con l’inizio
del secolo successivo in realtà tale
“modello” muta, non solo nelle
forme, ma sicuramente nei contenuti
veicolati, e nella personalità delle
padrone di casa
[2] .
Tra la fine
dell'Ottocento e i primi del
Novecento, il nuovo impegno delle
donne istruite e arbitre dei salotti
era rivolto alle opere di assistenza
e beneficenza o orientato
politicamente in senso
emancipazionista, o, come nel caso
della Kuliscioff, era quasi il
sostituto di una sede di partito. Si
è soliti affermare che, proprio per
questo, i salotti cominciarono a
perdere quel carattere di
sociabilità borghese che li aveva
contraddistinti fino ad allora;
sembra così, in apparenza,
tramontare anche il ruolo delle dame
salonnières, che aveva trovato
espressione nelle conversazioni
letterarie o nei dibattiti
patriottici.
Se questo è
in parte vero per alcuni dei salotti
primo novecenteschi, non è così in
tutti i casi: il salotto Sarfatti,
ad esempio rivela una nuova forma di
sociabilità e probabilmente anche
una salonnière di tipo nuovo.
A creare questo tipo nuovo di
“padrona di casa”, è soprattutto la
comparsa, in età giolittiana, di una
élite intellettuale nuova, fatta di
giornalisti, operatori culturali,
costruttori di opinione, che ha
nuovamente bisogno, come l’élite
borghese del secolo precedente, di
luoghi in cui trovarsi e
riconoscersi: il salotto diventa
così anche luogo di costruzione
identitaria di questa nuova élite.
E il salotto Sarfatti fu centrale,
nel dare a questa nuova élite un
luogo anche mentale in cui
riconoscersi. Se esso possiede una
propria unicità, essa dipende dal
fatto che, solitamente, la stessa
nuova élite aveva altri luoghi in
cui incontrarsi: le case editrici,
le librerie, le redazioni dei
giornali.
Ma il salotto Sarfatti fa eccezione,
perchè, grazie alla padrona di casa,
esso seppe esercitare, in più
occasioni, la stessa funzione di
quei luoghi “neutri”, in cui la
società degli uomini (ché la maggior
parte di questi nuovi intellettuali
della penna erano uomini) si
ritrovava. Ciò essenzialmente per
due motivi: la padrona di casa,
donna, voleva entrare in quell’ambiente,
essere riconosciuta come un
intellettuale alla pari con quella
nuova società intellettuale
soprattutto maschile, e ci riuscì:
prima di poter avere accesso a
quelle sedi (giornali, cenacoli,
caffè mostre d’arte), e per poter in
seguito avere accesso a quelle sedi,
ne fece entrare i protagonisti in
casa propria.
Il salotto di Margherita Sarfatti fu
così il modo in cui la donna riuscì
a trovare un proprio spazio a
Milano, ove si era trasferita da
Venezia, nel 1902, per seguire il
marito, dirigente socialista. Questo
mondo accolse i Sarfatti, che
avevano scelto di abbandonare
Venezia perché troppo stretta per le
loro ambizioni politiche
[3] , in particolare
quelle di Cesare, avvocato brillante
e buon politicante, anche se non
troppo fortunato
[4] .
I due erano socialisti e israeliti,
e la città in cui scelsero di
traslocare era non solo il centro
propulsivo del socialismo italiano,
ma era animata anche da una
comunità ebraica forte, impegnata in
parte nel partito socialista, in
parte nelle imprese filantropiche.
Spesso in entrambe
contemporaneamente. Ma l’approdo fu
una delusione.
Quando i coniugi Sarfatti si
trasferirono a Milano la città stava
attraversando l'ultimo decennio di
una vitalità intellettuale e
politica che ancora la legava alla
cultura di fine secolo, e cui fa
invece da contrappeso una vitalità
economica in espansione. I Sarfatti
assistettero così, da protagonisti,
al passaggio di consegne che stava
segnando definitivamente il tramonto
della Milano scapigliata,
cavallottiana, e anche turatiana.
Questo passaggio era la risposta
milanese alla crisi di fine secolo,
la risposta della sua borghesia, che
riusciva a produrre, con il nuovo
secolo, una forte industria
editoriale e un numero consistente
di letterati "di consumo", ma che
perdeva terreno nel dibattito
culturale, recuperandolo
parzialmente solo dopo il 1910. Alla
capitale morale ed intellettuale si
stavano sostituendo così altri
centri di irradiazione. Tutto ciò
avviene contemporaneamente alla
crisi del giolittismo e della
cultura positiva, di cui rimanevano
però ancora salde le esperienze
pratiche della filantropia
borghese, della Società Umanitaria e
del riformismo socialista.
Proprio questo mondo, che fu
l’inevitabile primo approdo della
nuova arrivata, però, non la
riconosceva come individuo separato
dal marito o dall’ambiente che
ruotava attorno alle tematiche
femministe: il salotto fu il modo in
cui riuscì ad affrancarsi da un
contesto politico e culturale che in
una donna accettava l’attività
filantropa o suffragista
[5] , ma che nella stessa
donna faticava a riconoscere una
intellettuale e una giornalista di
cultura, per altro ben lontana, come
impostazione culturale, dallo
stantio orizzonte che il partito e i
luoghi ad esso vicini
rappresentavano.
Il suo salotto fu così il risultato
di un processo di autonomizzazione
intellettuale da un partito, quello
socialista, cui apparteneva, ma che
intellettualmente era
insoddisfacente e alieno alla sua
formazione. Lo dimostrano le
difficoltà che incontrò, appena
giunta in città, per farsi largo in
quanto intellettuale e critico
d’arte, attività in cui si era
cimentata a Venezia, e con successo,
fin dai primi anni del matrimonio:
ma a Milano trovare spazio fu
difficile. Nei suoi primi anni
rimase in contatto con giornali
veneziani, su cui comincia a
scrivere d’arte, la materia che più
sente congeniale: collaborò a «Il
Secolo nuovo», che aveva
contribuito a fondare con il marito
e Elia Musatti, a «La Gazzetta degli
Artisti», in cui dominava la
personalità di Mario Morasso, ove si
occupa delle Biennali d’arte,
dirette fino al 1920 dal suo maestro
Antonio Fradeletto. Trovò spazio per
breve tempo anche su La Patria
di Roma, ove recensì ancora le
mostre veneziane.
[6]
A Milano inserirsi fu ben più
arduo: accreditarsi presso i
socialisti milanesi non solo come
una intelligente attivista ma come
una intellettuale e scrittrice
d’arte non le sarebbe stato facile.
[7]
Frequentò le emancipazioniste
milanesi, ma senza grandi fervori, e
solo perché le permettevano di
inserirsi in città: in quanto donna
era obbligata ad accedere prima ai
luoghi del’emanicipazionismo, per
poi conoscere coloro che l’avrebbero
condotta verso quegli spazi che in
realtà le interessavano, e che sono
maschili: le redazioni culturali dei
giornali, le gallerie d’arte. Capì
immediatamente che, da giovane donna
e moglie di esponente socialista,
era difficile trovare spazio nella
politica degli uomini e che nel
giornalismo intellettuale l’impresa
era anche più ardua. La sola
possibilità era forse quella invece
di avvicinare intellettuali più
ancora politici e artisti ( non
dimentichiamo che era critico
d'arte) nei salotti degli altri,
anzi, delle altre. In particolare
nel salotto Kuliscioff nel salotto
Ravizza e in quello di Ersilia
Maino.
La Milano delle attività “pratiche”
della società Umanitaria,
dell’Unione Femminile e delle
iniziative ad essa collegate, come
l’Asilo Mariuccia, fu infatti, per i
due Sarfatti, di più facile
accesso : il marito tiene corsi
all’Università Popolare ed entra nel
Consiglio della medesima. Entrambi
frequentarono casa Ravizza, il
salotto dei Majno
[8] , e Margherita
cominciò, dal 1902, a collaborare
all’ «Unione Femminile»,
periodico della omonima associazione
emancipazionista presieduta da
Ersilia Majno.
[9]
Questo le fornì l’occasione per far
nuove conoscenze, conoscenze che le
servirono anche per poter entrare
nell’unico mondo che le interessava,
quello del giornalismo colto e della
critica d’arte, per potersi
ritagliare anche un ruolo di
operatrice culturale e
organizzatrice di mostre: doveva
uscire da un anonimato che non le
era congeniale a cui a Venezia non
era abituata
[10] . Si era spostata a
Milano proprio per ampliare le
proprie ambizioni.
Comprese subito che solo gestendo in
prima persona il traffico degli
inviti avrebbe potuto ottenere
veramente di gestire le conoscenze
attivate in casa altrui, e
controllarle, farle fruttare,
diventando a propria volta un
tramite per altri: agevolata anche
dalla posizione del marito aprì così
anch’essa un proprio salotto,
(d’altra parte a Venezia ne aveva
frequentati e considerava questa
pratica quasi naturale per una
esponente dell’alta borghesia
ebraica). Fu quindi “apprendista
salottista” a casa delle tre
straordinarie donne che abbiamo
citato, ma non le emulò mai perché
il solo interesse che aveva, a parte
conquistarsi un pezzetto di nomea
cittadina era promuovere se stessa e
dimostrare che il suo non sarebbe
stato un salotto della buona
borghesia ma una vera e propria
factory
1906 – 1910
Decise perciò di aprire il proprio
salotto per portasi letteralmente
“il lavoro in casa” e conoscere
quanti potevano esserle utili ad una
carriera professionale: ogni suo
mercoledì servì quindi soprattutto
ai suoi scopi. In questo senso non
era diverso forse da quello della
Kuliscioff nel quale, si impostava
probabilmente parte della politica
socialista.
Ma la Sarfatti era intenzionata a
fare del proprio esclusivamente un
luogo ove proporre se stessa.
L'elemento centrale del suo salotto
non erano gli ospiti, era lei
stessa, che tentava, mostrandosi
donna colta, intellettuale, di
trovare agganci e dimostrarsi, nella
conversazione colta, all’altezza
egli uomini presso i quali voleva
essere accreditata come
intellettuale di professione. Casa
sua divenne il luogo in cui avrebbe
potuto conoscere i critici d'arte
con cui voleva lavorare e nel
contempo gli artisti che era
intenzionata a promuovere; in
seguito, sapeva, sarebbero stati
loro ad andare da lei, una volta che
casa sua avesse assunto il ruolo di
un luogo di propagazione di
iniziative.
Non possedendo un giornale da cui
scrivere, non possedendo una
galleria, non essendo un accademico,
non avendo un luogo materiale in cui
esercitare una professione,
promosse così l’arte organizzando
mostre, e firmando cataloghi. Solo
così “l’Avanti!”, «L’Illustrazione
Italiana», «La Cultura Popolare»,
«IL Marzocco», «L’Avanti della
Domenica» avrebbero potuto darle
credito. Fu una free lance,
accreditata da ciò che stava
“scoprendo” invitando in casa
propria quanti conosceva alle mostre
(dove dal 1909 grazie ad una grossa
eredità poté cominciare ad
acquistare) o nei salotti altrui.
Era riuscita così ad avvicinare i
pittori futuristi, Boccioni, a
costruire dal nulla il gruppo di
nuove tendenze: invitandoli a casa
propria, e mostrando le proprio
collezioni di quadri,
autopromuovendo la propria capacità
manageriale e le collaborazioni
avute a Venezia con Antonio
Fradeletto
[11] riuscì a convincerli
di poter essere per loro qualcosa di
più di un critico d'arte. Fu quindi
il primo caso, ritengo, di salotto
non solo culturale, ma di impresa
casalinga.
E questo fu il suo primo
apprendistato. Quando si rese conto
che attraverso il proprio lavoro di
critico d'arte poteva veramente
diventare anche altro, decise di
giocare uan nuova carta. Ormai aveva
vinto la propria battaglia nel modo
dell’arte altre, i luoghi per fare
affari e organizzare mostre erano
ormai le mostre stesse, un altro
spazio della sociabilità che
purtroppo sfugge spesso a chi
analizza i cenacoli intellettuali.
E in più si accorse di aver creato
una macchina di circolazione delle
idee, con ospiti ormai fissi: Ada
Negri, Alfredo Panzini; a rotazione,
Vitorino Pica e Antonio Fradeleltto
e Pompeo Momenti in vista, Virgilio
Brocchi, Lino Pesaro, i Wonwiller, i
Rignano i Della Torre e un’ampia
parte della comunità ebraica, ancora
la Ravizza, Paolo Buzzi, Alfredo
Siciliani, Boccioni e Sant’Elia
Leonardo Dudreville e tutto il
gruppo di Nuove Tendenze,
senza dimenticare i giovani de «Il
Rinnovamento», soprattutto
Alessandro Casati, Antonio Soragna e
Stefano Jacini; e in più molti altri
modernisti, l’amico di sempre
Fogazzaro e il prete di strada
Brizio Casciola
[12] .
1910 - 1914
Fu la macchina costruita a farle
comprendere che avrebbe potuto
usarla indipendentemente dal
contenuto. L’arte non le bastava
più. E cominciò il suo sodalizio con
l’ambiente vociano, un ambiente che
frequentava da associata alla
Libreria della voce, da
scrittrice sul bollettino e sulla
rivista medesima. Ma per
rappresentare a Milano un’anima
vociana, per rendersi credibile a
Prezzolini con cui intratteneva
rapporti epistolari, e a cui
chiedeva costantemente di
collaborare, decise di trasformare
casa propria nella sede delle
conferenze dei sacerdoti modernisti
malvisti in sedi ufficiali dopo
l’enciclica Pascendi. Malvisti in
sedi ufficiali ma molto apprezzati a
quel tempo da Prezzolini stesso e da
molti vociai (Boine, Papini,
Slataper, Amendola, Cardarelli),
Casciola, e Minocchi in particolare
(ma anche Romolo Murri)
[13] . Cominciò così ad
ospitare conferenze di Semeria e
Casciola, e divenne il punto di
riferimento di quanti ancora
desideravano ascoltare questi
sacerdoti “apostati.
Organizzò conferenze sulle religioni
orientali, sullo spiritualismo e
sulle filosofie irrazionaliste: a
parteciparvi, oltre ai “soliti” già
citati, anche Fernado Agnoletti,
Luigi Ambrosini, Boie, Amendola,
Borgese. Non mancò mai, inoltre, di
invitare ripetutamente Alessandro
Casati, non più in veste di giovane
intellettuale modernista, questa
volta, ma in quanto principale
finanziatore e de «La Voce».
Quando dal 1912 queste sedute
cominciarono a farsi frequenti, e i
rapporti con Prezzolini più forti,
la vociana decise di osare di più. A
queste sedute partecipava anche
Mussolini, che non a caso, proprio
nel 1913, con il suo aiuto fondò
«Utopia», rivista del socialismo
idealista; la rivista è frutto della
capacità sarfattiana di far
incontrare prima in casa propria, e
solo successivamente nelle redazioni
delle riviste (spesso anch’esse case
private), i futuri collaboratori del
progetto.
Il salotto stava diventando così,
anche grazie alla “progettazione” di
“«Utopia», il luogo in cui Mussolini,
grazie alle discussioni teoriche che
vi si tenevano, cominciò a
corrispondere all’ideale di uomo
vociano che Prezzolini da tempo
andava cercando. L’uomo nuovo, tanto
ricercato da Prezzolini su “La
Voce”, fu anche un prodotto della
Sarfatti prezzoliniana e della sua
influenza su Mussolini, che presso
di lei fece un vero e propri
apprendistato culturale,
Fu grazie alle discussioni dentro il
salotto Sarfatti, per esempi, che
Mussolini imparò a conoscere, nelle
discussioni l’esistenza dei «Cahiers
de la quinzaine», modello della Voce
e di Prezzolini, attraverso
l’incontro con Daniel Halevy. Casa
Sarfatti era infatti anche il primo
luogo in cui venivano discussi e
presentati i libri che venivano d
alei acquistati preso la libreria
della Voce: Il materiale acquistato,
come dimostra la presenza di
Fingley, libro dei Tharaud, è
tratto dalla Librairie Bellais
[14] , e quindi
dall'ambiente gravitante attorno ai
Cahiers di Péguy, probabilmente uno
dei legami più forti fra Margherita
Sarfatti e «La Voce»: Péguy, Daniel
Halévy, Romain Rolland e Anatole
France, che cominciarono ad entrare,
probabilmente solo allora nella sua
personale biblioteca, erano tutti da
tempo punti di riferimento del
gruppo vociano
[15] . Successivamente
alle richieste di libri, infatti,
Margherita Sarfatti, andò a Parigi
per la prima volta, conoscendovi
Péguy, Halévy, e tutti i
collaboratori dei Cahiers
[16] . E loro
restituirono la vista, trasformando
ulteriormente la casa in un luogo di
scambio e confronto culturale fra
Italia e Francia.
Anche in questo caso, però, la
padrona di casa cercava attraverso
il salotto di costruire se stessa,
proporre se stessa come una peguyana,
un esponente di quello che Emilio
Gentile aveva chiamato italianismo,
quel nazionalismo vociano che vedeva
negli intellettuali i veri e soli
tramiti far mondo della politica e
società civile. E fece questo non
solo perché le pareva di aver
scoperto la propria vocazione
politica, ma soprattutto perché
aveva sposato le speranze di
Prezzolini su Mussolini. E a
beneficio di Mussolini, fino almeno
all’inizio della guerra.
L’ultima metamorfosi avvenne dal
1915, con la versione “Sarfatti
interventista”. Dopo aver scritto un
libro di successo La milizia
femminile in Francia, (Rava
1915), in cui inneggiava alle
attività sul fronte interno delle
donne francesi, casa sua diventò un
vero e proprio focolare del fronte
interno. Non più salotto, ma luogo
da cui partivano le attività per gli
orti di guerra, e le altre
iniziative del sindaco Caldara, cui
collaborava accanto ad altre donne.
Quartier generale della femminilità
sul fronte interno, collaborò con
Carla Lavelli Celesia, ma sempre
imponendo casa propria per le
riunioni. Lo spazio fisico del
salotto in questo caso si allargava
all’intera casa, in cui si
raccoglievano materiali e indumenti,
ma le discussioni dei comitati (la
sarfatti partecipava a tutti i
sottocomitati per gli sfollati)
avvenivano, per volontà della
padrona di casa, nel salotto
[17] . Fu la prima volta,
probabilmente, in cui il salotto si
animò quasi esclusivamente di donne,
ognuna delle quali con un compito
legato alle attività milanesi su
fronte interno.
1919 - 1924
Con la fine della guerra tutto
cambiò. Ma questa è un’altra storia
e riguarda le vicende fasciste, e
quanti come la Sarfatti vi
parteciparono.
Ma questa storia successiva riguarda
anche un nuovo tipo di salotto, che
meriterebbe una trattazione a sé, e
qui per scelta infatti non è
trattato. Poche parole su questa
ultima fase è però opportuno
spenderle.
Ormai, nel primo dopoguerra, la
Sarfatti non aveva più bisogno di
autopromozione mondana, politica e
cultuale, perché era già stata
“promossa” dalla morte in guerra di
un figlio diciottenne, dalla
consacrazione fra i fascisti più
attivi di Milano, e dalla ormai
salda attività di giornalista
culturale. Accanto al lavoro di
promozione e autopromozione nel
settore artistico, che per sua
natura aveva bisogno di un luogo di
rappresentanza e contrattazione
[18] , il salotto
Sarfatti divenne il luogo di
elaborazione teorica del primo
fascismo, una sala riunioni sempre
piena, lo studio di un politico, e
in molti casi un secondo ufficio di
Mussolini.
Ricordiamo che la donna, nello
spazio della casa, non possiede uno
“studio”, com non possiede quais
mai un “ufficio”, un’interfaccia con
l’esterno (luoghi simbolico cui
varrebbe la pena spendere parole per
quanto riguarda invece le forme del
poter maschile, per chi un giorno ne
voglia studiare la storia sociale );
ospitando in casa propria Mussolini,
la Sarfatti attribuì al proprio
salotto quindi una nuova funzione,
proiettiva di quella del potere
maschile a cui si era affiancata e
di cui si era fatta corifea,
Mussolini e il suo fascismo
[19] : uno spazio
semipubblco, una “factory “ del
fascismo”, il corrispondente
femminile dello studio.
Dopo il 1924
Quando nel 1924 si trasferì Roma,
il salotto divenne qualche
cos’altro, una meta di postulanti,
un luogo ormai privo di una funzione
che non fosse quella di
rappresentanza del fascismo, un
salotto buono in cui invitare quanti
necessitavano una raccomandazione,
una qualche forma di protezione
[20] , o ancora di più,
un luogo in cui si tesseva
l’attività diplomatica del regime,
in particolare con interlocutori
americani.
Il ruolo del salotto, quindi, cambia
ancora, sia rispetto alla stagione
emancipazionista, che a quella del
primo fascismo. Tale slittamento di
funzione è tipico dei salotti
fascisti: cambia quello della
Sarfatti, ma lo stesso avverrà per
altri salotti fascisti (mimì Pecci
Blunt, Fernanda Wittgens, per citare
le più note). Il salotto diventa il
luogo in cui la salonnière può
esercitare un nuovo tipo di potere,
nei confronti del personaggio
maschile e del potere governativo.
Ritorna, se vogliamo trovare un
modello di riferimento, ad avere una
funzione analoga a quella dei salon
sei - settecenteschi, quasi che la
fase intermedia, quella
dell’affermazione, e poi dell’emanicipazionismo,
che passa indubbiamente per i
salotti, fra otto e novecento, non
fosse mai realmente esistita: il
potere sulle masse, e il controllo
della “rappresentazione” del potere
vanno così a braccetto, in un gioco
un cui il dominio maschile si sposa
con le antiche abilità femminili.
Il salotto Sarfatti, proprio per
questa sua fisionomia, ovviamente
tramonta quando la sua proprietaria
smette di avere una funzione
all’interno del regime, alla fine
degli anni venti
[21] .
Conclusioni
Proporre un ragionamento sui
salotti, e sulle salonnière,
significa anche, ovviamente, entrare
nella storia del genere, delle
contrapposizioni di genere, della
modalità femminili di avvicinamento
ad un mondo che fuori dei salotti
era visto come maschile.
Il salotto è uno spazio, fisico e
simbolico, e parlo ovviamente per il
periodo che conosco meglio, il primo
novecento, in cui la donna
protagonista prova ad esercitare un
potere da cui è estromessa
all’esterno. Con il fascismo, come
ho anticipato, le forme di questo
potere femminile mutano
radicalmente.
Ma questo presuppone anche un nuovo
angolo di visuale per riparlare di
storia politica delle donne. Non è
solo la dimensione della sociabilità,
della circolazione intellettuale, ad
emergere, nel primo novecento, ma
qualche cosa di più: da un lato è la
persistenza di un luogo che resiste
ad un certo tipo di modernità,
quella che vede emergere da una
società civile una società politica.
Ma proprio questo testimonia che il
salotto, nella storia politica delle
donne rappresenta, e la Sarfatti del
primo novecento ne è un esempio (ma
anche la Sarfatti successiva), lo
spazio politico e di manovra che le
donne si ritagliano allo scopo di
intervenire ed essere protagoniste
nella sfera del potere. Un modo, se
vogliamo di entrare da un altra
porta, nei luoghi in cui le
decisioni vengono prese. Proprio
perchè la storia politica delle
donne è ancora un oggetto troppo
poco presente in chi studia le
dinamiche dei rapporti fra i sessi,
sotto questa nuova chiave
interpretativa il salotto diventa il
sostituto dei diritti negati, oltre
ad essere il luogo di elaborazione
(è il caso del salotto Majno, per
esempio
[22] ) per condurre una
battaglia in nome di quei diritti
negati. In altri casi, tocca un
altro tasto della storia politica
delle donne, il rapporto con il
potere, il conflitto tra i sessi, il
rapporto tra morale e potere; il
cammino delle donne ha dovuto
percorrere dopo la già studiata ed
esemplare, in questo senso,
questione dell’emanicipazionismo, un
impervio tragitto nella storia
politica. E credo che questo sia un
tema su cui la riflessione
storiografica ancora non è matura.
Simona Urso
[1]
Cfr.
Su questo Maria Teresa Mori,
Salotti: la sociabilità delle élite
nell'Italia dell'Ottocento;
prefazione di Marco Meriggi, Roma,
Carocci, 2000; Marc Fumaroli,
Il salotto, l'accademia, la lingua :
tre istituzioni letterarie,
traduzione di Margherita Botti,
Milano, Adelphi, 2001; Daniela
Pizzagalli,
L' amica: Clara Maffei e il suo
salotto nel Risorgimento italiano,
Milano, Mondadori, 1997 ; Verena von
der Heyden-Rynsch,
I salotti d'Europa,
Milano, Garzanti, 1996 ; Anna Maria
Verna,
Donne del Grand Siècle,
Milano, Franco Angeli, 1994;
Benedetta Craveri,
La civilta della conversazione,
Milano, Adelphi, 2001; Benedetta
Craveri,
Madame du Deffand e il suo mondo;
con un saggio di Marc Fumaroli ,
Milano, Adelphi, 2001; Marie de
Sevignè,
Alla figlia lontana, Lettere
1671-1690,
a cura di Maria Schiavo, , Roma,
Editori Riuniti, 1993; Hannah Arendt,
Rahel Varnhagen: storia di una ebrea;
a cura di Lea Ritter Santini,
Milano, Il Saggiatore, 1988;
Dal salotto al partito. Scrittrici
tedesche tra rivoluzione borghese e
diritto di voto,
a cura di Lia Secci , Roma, Savelli,
1982;
Carteggio Tenca-Maffei
a cura
di Lina Jannuzzi, Milano, Ceschina,
1973; Giovanni Visconti Venosta,
Ricordi di gioventù;
pagine scelte, a cura di Bianca
Vita, Torino, G. B. Paravia, 1967 ;
Raffaello Barbiera,
Il salotto della contessa Maffei
nuova ed., Milano, Garzanti; (1895,
1°), 1944 ; Olimpia Savio,
Memorie della baronessa Olimpia
Savio,
a cura
di Raffaello Ricci, Milano, Treves,
1911.
[3]
La
politica per i socialisti veneziani
non è cosa facile, soprattutto
perché il gruppo cittadino è
ristretto ed avulso dalla realtà
sociale delle campagne. Ed è arduo
per la coppia Sarfatti imporsi
politicamente in un ambiente
ristretto in cui sono presenti altri
due leader, Carlo Monticelli ed Elia
Musatti. Nonostante il lavoro fatto
insieme per ricostruire la
Federazione, nel 1900, dopo i due
anni di illegalità, e la creazione
del "Secolo Nuovo", giornale
socialista veneziano, le differenze
tra Cesare Sarfatti e i due compagni
vanno aumentando. Determinante,
forse, è la scelta riformista di
Cesare, in contrasto con gli
orientamenti rivoluzionari di
Musatti (Sulla situazione politica
dei socialisti veneziani cfr. E.
Franzina, Venezia, Bari,
Laterza, 1986, pp.311-313).
Su
Elia Musatti, cfr. ancora Franzina,
Venezia, cit., p.312-15 e
DBMOI ad nomen. Il
riformismo di Cesare, di cui nel
1900-1901 non si ha chiaro
l'orientamento ( favorisce, il 14
novembre 1900, la nascita del
giornale anarchico anconetano
"L'Agitazione") è però un dato
certo nel 1904: "La sera del
19-4-1904 presiedette l'Assemblea
generale dei gruppi socialisti
autonomi riformisti."; dal
Casellario Politico Centrale,
Sarfatti Cesare.
[14]
Charles Péguy apre nel 1898 una
libreria socialista, la librairie
Bellais, che gli serve per
raccogliere autori come Rolland,
Sorel, i Tharaud, Jaures, France. I
Cahiers nascono invece nel 1900 e
finiscono nel 1914 (Péguy muore
l'anno dopo nella battaglia della
Marna). All'inizio erano solo un
bollettino socialista, ma col tempo
furono uno strumento monografico per
ognuno degli autori citati, e per
altri, che vi avevano la massima
libertà di espressione. Già nel 1910
la sua riflessione religiosa è
matura (scrive Le mystere de la
charitè de Jeanne D'Arc) e
diventa così un poeta cristiano di
rilievo. Su di lui cfr., J. Bastaire,
Socialismo e cristianesimo in
Charles Péguy, in appendice a
Péguy, L'anarchia politica,
traduzione introduzione e note a
cura di A. Prontera, Roma, Edizioni
Logos, 1978, p. 140; Péguy
vivant, Atti dell'omonimo
convegno, Lecce, Micella, 1978; fra
i testi in lingua francese che ci
sono stati utili cfr. B. Guyon,
Péguy, Paris, Hatier, 1960; J.
Bastare, Péguy l'insurgé,
Payot, 1975; svariati riferimenti a
Péguy vengono fatti anche in. E.
Lipianski, L'identité française.
Representations, mythes, idéologies,
Paris, 1991 (ad nomen); R. Girardet,
Le nationalisme français.
Antologie (1871 - 1983), Paris,
1983, (ad nomen). Da segnalare è
l'interpretazione che di Péguy
fornisce Leonardo la Puma, (L'opera
di Charles Péguy, in "Studi
Storici", cit), definendo Péguy
ultimo testimone del
repubblicanesimo mistico - religioso
che, tra i diversi filoni del
socialismo, sembra essere stata la
corrente perdente. Una tradizione
che secondo La Puma ha attraversato
il 19° secolo da Mazzini a Pierre
Leroux attraverso Fourier, S. Simon,
Proudhon, Blanc, Jaures, dal quale
attinse Péguy. Una tradizione
interrotta, così come Gramsci si
riallaccia a Mazzini. Sempre di L.
La Puma si segnala Il socialismo
sconfitto: saggio sul pensiero
politico di Pierre Leroux e Giuseppe
Mazzini, Milano, Franco Angeli,
1984.
[15]
Cfr.
G. Prezzolini, Diario, 1900-
1941, Milano, Rusconi, 1978, p.
131. Péguy è anche argomento per un
articolo di Cardarelli sulla '"Voce"
(Charles Péguy, 7 settembre
1911), che sulla rivista suscita
polemiche per l'impreparazione di
Cardarelli sull'argomento. Ma sui
Cahiers e su Péguy compariranno ne
La Voce due articoli di Prezzolini,
I cahiers del a Quinzaine, 4
agosto 1910; id, Charles Péguy,
15 marzo 1915.
[16]
Sempre
a Parigi Margherita incontra
Ricciotto Canudo, D'Annunzio, Diego
Rivera e Valentine De Saint Point.
Cfr. veda anche lettera a
Prezzolini del 3 giugno 1913: "Sono
tornata da pochi giorni da Londra e
Parigi...", e del 5 maggio 1913 (da
Londra): "...vidi però lo stesso il
Péguy, lo rivedrò al mio ritorno a
Parigi...". Archivio Giuseppe
Prezzolini, Lugano, b. sarfatti
Margherita.
[18]
Lo
racconta Leonardo Dudreville (in R.
Bossaglia, Il Novecento italiano,
Milano, Feltrinelli, 1979, p. 68 ):
“ [...]in quel tempo io frequentava
casa Sarfatti che era il circolo
intellettuale più importante della
città (... ) in quel tempo il
salotto Sarfatti era
frequentatissimo. Fra i tanti Tosi
Salietti non mancavano mani”.
[19]
“Negli
anni infuocati alla fine della
guerra, i ricevimenti settimanale di
Margherita Sarfatti, con
l’avvicendarsi di persone personaggi
d’ogni provenienza, di celebrità
politici canti e di nullità
insuccesso transitorio, di artisti
pubblici mondani....” N. Podenzani,
Il libro di Ada Negri,
Ceschina, Firenze, 1969, pag. 138.
[20]
Anche
la protezione degli scrittori invisi
al potere rientra in questa
dinamica, come dimostra questo
ricordo di Corrado Alvaro (C.
Alvaro, Quasi una vita. Giornale
di uno scrittore, Milano,
Mondadori, 2^, 1951, p. 58): “La
signora Sarfatti mi dice: - avrei
piacere di rivederla. Io ricevo
tutti i venerdì.- E s’avviò di là
con il suo passo generale. La
signora Sarfatti è temuta e
corteggiata. Nelle mie condizioni,
osservato, tenuto il sospetto,
capisco che mi offre un’ancora di
salvezza, forse senza saperlo, perla
sua naturale curiosità di incontri,
per il suo eclettismo culturale.
Basta che mi vedano in casa sua. Non
si spiegheranno né il come né il
perché.”
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Ringraziamo Simona Urso,
storica e tra le maggiori
esperte di Margherita Sarfatti
(a cui ha dedicato una
fondamentale monografia), per la
concessione di questo saggio.
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