JEFFREY T. SCHNAPP 22-02-13 17.06.20 |
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SAGGIO IN BOZZA DI JEFFREY T. SCHNAPP
Il monumento senza stile ...i ruderi fumano tempo grigio, mentre intorno alle cose nuove vibra l'elettricità del futuro, come un'aureola e come una maschera di vetro... (F.T. Marinetti, da Ricostruire l'Italia con architettura futurista Sant'Elia)
L’idea di monumento moderno è un’autentica contraddizione in termini. Se è un monumento non è moderno e se è moderno non può essere un monumento (Lewis Mumford, The Culture of Cities, Harcourt Brace Jovanovich, NY 1938, 438) [La cultura delle città, a cura di Michela Rosso e Paolo Scrivano, Edizioni di Comunità, Torino, 1999] [La cultura delle città, trad. it. di Enrica e Mario Labo, Edizioni di Comunità, Torino, 1954]
La sommità di Col d’Echele sarebbe un luogo singolarmente insignificante non fosse per gli eserciti di spettri in uniforme che lenti avanzano in eterno sui campi dell’Altopiano di Asiago un tempo sfregiati dalla guerra. Come in molte altre zone delle Alpi o, anche, in luoghi non meno impersonali ancorché più celebri come Farsalo, la Somme, Waterloo, Canne e Verdun, questi movimenti di truppe invisibili hanno luogo lungo una vasta rete di mutevoli linee di forza, punti di pressione e vettori di potenza un tempo vissuta con un’intensità inversamente proporzionale all’abbandono subìto dopo che attori, macchine e motivi della guerra vengono consegnati a cimiteri, alla rottamazione e a libri sempre più sepolti nelle cataste delle odierne biblioteche di Babele. Perfino le ferite sofferte dal paesaggio si rimarginano in fretta. Ogni campo di battaglia è un teatro della dimenticanza. A meno che, cioè, la dimenticanza postbellica non sia (temporaneamente) interrotta da quelle azioni di memoria – consce, selettive, strumentali – che vanno sotto il nome di monumenti. Un monumentum o monimentum è una statua o un edificio, una tomba o una documentazione scritta commemorativi che ricorda, contrassegna e ammonisce; un Denkmal o occasionale stimolo al pensiero che combatte la certezza dell’oblio per mezzo di architetture che, per loro stessa natura, sono costruire per durare. Non esiste pertanto ambito di costruzione più conservatore o legato alla tradizione: conservatore nel suo ricorso alla pietra quale materiale di marcatore di memoria e costruttore di memoria; legato alla tradizione nel suo affidarsi a un repertorio standard di stili ornamentali, forme geometriche e convenzioni retoriche di derivazione principalmente classica. A un grado forse maggiore rispetto a qualsiasi altra forma di architettura, l’architettura dei monumenti "fuma il tempo grigio" delle rovine e si oppone alle vibranti elettricità del futuro. In tal senso si pone in fondamentale tensione con i valori del movimento moderno adottati in seminali esposizioni quali Vers une Architecture (1923) di Le Corbusier: Mentre la storia dell'architettura si svolge lentamente attraverso i secoli, su stereotipi strutturali e decorativi, in cinquant'anni il ferro e il cemento hanno apportato acquisizioni che sono indice di una grande potenza di costruzione e di un'architettura dal codice rivoluzionato. Se ci si mette di fronte al passato, ci si rende conto che gli "stili" non esistono più per noi, che si è elaborato uno stile contemporaneo, c'è stata una rivoluzione. La rivoluzione in questione impegna l’architettura a non servire né il passato né il futuro, ma bensì il presente, anche a rischio di accogliere apertamente un’intrinseca obsolescenza. Invita le strutture costruite a forgiarsi sullo stampo dell’aeroplano, dell’automobile, del transatlantico e della turbina; a trascendere il sistema degli stili nel nome di uno "stile" contemporaneo che stile non è: un’architettura di ingegneri fondata sull’incessante sperimentazione con nuovi materiali, sull’industrializzazione della costruzione e che garantisce comfort, utilizzabilità e mobilità a chi vive, lavora e si svaga negli ambienti costruiti di oggi. L’icona sulla copertina di Vers une architecture è dunque l’antitesi di una tomba, di una cripta o di una stele funeraria: il fulgido corridoio d’acciaio del piroscafo Aquitania esposto al mare da un lato e a una fila di cabine dall’altro; un esempio del "valore di una lunga passeggiata, volume soddisfacente, interessante; l'unità della materia, la bella disposizione di elementi costruttivi sanamente esposti e raccolti con senso dell'unità" (fig. 1). L’esemplare armonia e bellezza che i protagonisti del Movimento Moderno quali Le Corbusier, Walter Gropius, Mies van der Rohe e Giuseppe Terragni attribuivano alle città in movimento cinte d’acciaio, come i transatlantici e altri analoghi manufatti dell’era industriale, li costringe a una critica delle forme tradizionali dell’architettura commemorativa, dei materiali convenzionali, dell’imitazione degli stili storici e a un’insistenza sulla permanenza e immobilità delle strutture costruite. Eppure questa nuova generazione di architetti, nonostante il sogno di un nuovo inizio architettonico e una disposizione d’animo anti-commemorativa, si sentì puntualmente chiamata a trovare nuovi modi per commemorare il passato. E non un passato qualsiasi, bensì quello recente della morte di massa e della guerra meccanizzata rappresentato dalla Grande Guerra, una guerra che, come dimostrato, seppure con diversa enfasi, da Reinhart Koselleck e Massimo Martignoni nel presente volume, diede l’avvio a una proliferazione senza precedenti di monumenti e memoriali piccoli e grandi, individuali e collettivi, a soldati, reduci e "martiri della patria" in Italia e nell’intera Europa. Fu questo il caso di Giuseppe Terragni, i cui (contro)monumenti e memoriali costituiscono il pezzo forte di In cima - Giuseppe Terragni per Margherita Sarfatti. In una successione di straordinari progetti che vanno dal monumento ai caduti di Erba (1926) al monumento futurista/razionalista Sant’Elia a Como (1930) al proposto monumento vivente alla Commedia di Dante, il Danteum (con Pietro Lingeri, 1938) – ma anche più in generale in capolavori quali il Novocomum (1928) e la Casa del Fascio di Como (1934) – Terragni si prefisse di creare un monumentalismo moderno: una monumentalità "senza stile", che riprende un vocabolario arcaico di monoliti funerari, cubi, croci, muri e scale e formula una nuova retorica della commemorazione fondata su un’estetica di riserbo emotivo. Un caso esemplare particolarmente penetrante è l’austero monumento geometrico a Roberto Sarfatti (1934), il quale morì nel tentativo di conquistare la cima di Col d’Echele verso la fine della Prima Guerra Mondiale e il recupero del cui cadavere nei primi anni Trenta portò la madre a commissionare la costruzione dell’opera commemorativa su quella stessa cima per la cui conquista il giovane Roberto aveva dato la vita. Il monumento in questione fu sottoposto a una generosa molteplicità di rielaborazioni che la mostra, nonché il saggio di Marina Sommella Grossi contenuto in questo libro, collocano all’interno di un contesto più ampio rappresentato dal ruolo assunto da Margherita Sarfatti quale protagonista e arbitro nei dibattiti sull’arte e l’architettura moderne degli anni Venti e primi anni Trenta, e dalla sua graduale eclissi a metà degli anni Trenta culminata nella partenza per l’America e nell’esilio a seguito della promulgazione delle leggi razziali italiane nel 1938. Il risultante monumentino o caro segno – come Margherita amava descriverlo – segna così uno dei momenti culminanti della sperimentazione formale razionalista. Ma segna anche una doppia perdita vissuta con particolare pathos da Margherita Sarfatti: la sofferta conquista postuma di una cima e la fine del sogno che il fascismo potesse abbracciare senza riserve i valori dell’arte e dell’architettura moderne. L’interesse più generale di In cima si concentra sul modo in cui l’architettura moderna, da Loos, Gropius e Mies a Terragni a BBPR, Scarpa e Rossi, elabora un monumentalismo anti-monumentale che al rifiuto del decorativismo e al perseguimento della mobilità, leggerezza e funzionalità, sposa una peculiare immaginazione che non esito a definire "archeologica". In questione c’è un fondamentale, e forse ineluttabile, paradosso fortemente avvertito da coloro per i quali, come per gran parte della generazione di Terragni, il razionalismo e il funzionalismo costituivano i pilastri dell’architettura di una nuova era industriale e al tempo stesso le espressioni profonde di un momento originario all’interno della cultura mediterranea. Che il momento in questione fosse romano, etrusco, minoico, greco arcaico, assiro-babilonese o antico egiziano era secondario rispetto alla convinzione che i monumenti del presente e del futuro dovessero in qualche modo coincidere con i monumenti di un remoto passato antecedente la caduta d’Adamo. Il grado zero della rappresentazione e della costruzione dell’avanguardia, la sua rivolta contro le forme ornamentali dello storicismo, le sue tabula rasa e griglie utopiche, chiudono la porta al passato solo per riaprirla di nuovo nel modo di un’archeologia delle strutture arcaiche: strutture arcaiche che, in maniera plausibile o improbabile, cerca di avvolgere dentro vibranti aureole elettriche e maschere di vetro. Non è certo un caso che Le Corbusier ponesse la lezione di Pompei, la città sepolta per eccellenza, al centro del proprio appello per un’architettura di ingegneri: Bisogna andare a Pompei per ammirare un impianto ortogonale. [I romani] Avevano conquistato la Grecia e, da buoni barbari, avevano trovato il corinzio più bello dal dorico, perchè più fiorito. Prima di tutto, dunque, i capitelli d'acanto, le trabeazioni decorate senza grande misura né gusto! Ma sotto, c'era qualche cosa di romano, che andiamo a vedere. Insomma, costruivano degli chassis superbi, ma disegnavano delle carrozzerie brutte come il landò di Luigi XIV. E quel qualcosa di romano non è la romanità intesa dai conservatori culturali come Ugo Ometti, bensì "niente parole inutili, ordine, idea unica, ardimento e unità di costruzione, impiego di prismi elementari. Retta moralità". La conclusione? "Conserviamo, dei romani, il mattone e il cemento romano e la pietra di travertino e vendiamo ai miliardari il marmo romano. I romani non conoscevano niente in marmo". (fig. 2) La "verità" di Pompei è il semplice rettangolo, la griglia elementare, lo chassis senza la carrozzeria. La "verità" dell’architettura romana – o meglio la verità di ogni autentica architettura – è la nuda struttura spogliata dalle incrostazioni decorative, rivelata nella sua sempre fresca semplicità geometrica, sia per progetto o grazie alla marcia corrosiva ma trionfale del tempo verso la forma pura. Come nel caso del Monumento a Roberto Sarfatti di Terragni, i monumenti moderni – dal presciente altare a Agatha Tyche (1777) di Goethe, al monumento alla Resistenza di Aldo Rossi, fino al monumento ai caduti del Vietnam (1982) di Maya Lin e al monumento agli Ebrei Scomparsi di Sol LeWitt (1989 o 1987) (fig. 3) – esplorano le possibilità di un’architettura marcatrice di memoria e creatrice di memoria che marca e crea per mezzo di solidi geometrici quali il monolito rettangolare (verticale, orizzontale o inclinato), la piramide (positiva o negativa), la sfera (figurata o implicita) e il cubo (solido o vuoto). Scavando in profondità nel vocabolario delle antiche forme funerarie e religiose, essi uniscono a queste geometrie tratti quali scale astratte, muri, corridoi e cripte nella cornice di una totale virata interna, introvertita, persino ermetico/ieratica: una rivolta contro la teatralità delle architetture funebri del secolo precedente, contro le loro prosaiche figurazioni della morte, il fragore retorico, l’affidarsi a triti simboli e allegorie, il ricorso unicamente alla dimensione per suscitare un impatto emotivo. Le risultanti creazioni non assumono sempre la forma dei "monumenti in movimento" anti-mnemonici che un Marinetti avrebbe preteso come rimedio contro il passatismo o che un Nietzsche avrebbe prescritto come cura per gli effetti prostranti dello storicismo ottocentesco: forse solo il cinetico monumento alla Terza Internazionale (1920) di Vladimir Tatlin e lo sprofondante monumento contro il Fascismo ad Amburgo di Esther e Jochen Gerz (1986-1993) rispondono pienamente a questo programma (figg. 4-5) . Eppure, parimenti inventivi, rompono con il precedente facendo appello a precedenti arcaici nello sforzo di estrarre le tragedie e gli eventi della storia contemporanea dal tempo e dallo spazio ordinari per collocarli in un’eroica/utopica assenza di tempo e spazio, l’equivalente laicizzato dell’eternità. La moderna architettura della memoria non imita né ripete in nessun senso comune del termine. Essa indaga il potenziale espressivo delle geometrie elementari, le forme archetipe e, quanto a questo, i materiali, in modo da trasfigurarle e ricombinarle, espandendo, alterando e/o capovolgendo i loro significati nel perseguimento di un monumentalismo che trascende la pura e semplice dimensione. Quattro di queste operazioni di scomposizione e ricomposizione saranno percorse nelle pagine seguenti prendendo a guida il caro segno di Terragni. Avranno come titolo: il monolito aerosostentato, il cubo esploso, la scala reversibile e la cripta all’aperto. Sono tutte variazioni di quella che di fondo è un’unica operazione. Assieme fungono da trampolino per un’indagine speculativa nella fenomenologia delle forme commemorative nuove/antiche. * * * * * Il monolito aerosostentato I monoliti, siano essi dolmen o stele, sono la forma di costruzione più antica e la loro centralità nell’opera di Terragni è sintomatica di un interesse onnicomprensivo come ben dimostrato da Alberto Sartoris il quale ricorda che: ...con Giuseppe Terragni, si meditava spesso lungamente sul concetto di monumentalità, la cui arte appartiene alla disciplina dell’architettura. Un edificio di dimensioni ridotte può anche essere un monumento: non è una questione di grandi proporzioni. Il grande monumento non ha nulla a che vedere con il colossale. Deve offrire le parvenze della grandeur naturale, come il Danteum. La raffigurazione del monumento è creazione del genio, della padronanza ideativa. La monumentalità come ideale architettonico era nell’aria nei salotti razionalisti. La sfida consisteva nel disgiungerla dallo stereotipato titanismo dell’architettura precedente. Quello di Terragni è a questo riguardo un caso emblematico in quanto le sue opere realizzate sono in generale modeste (perfino la Casa del Fascio può sembrare un cofanetto portagioie annidato nel tessuto della Como contemporanea) eppure il perseguimento di una grandiosità "naturale" ne informa ogni singolo dettaglio con una sensibilità tutta propria. Spiccano, fra questi dettagli, i monoliti trattati come modi per ottenere monumentalità non solo in base a una proiezione verticale o orizzontale bensì soprattutto attraverso una messa in scena del peso e della massa a sottolineare la pura e semplice fisicità della lastra di pietra e la potenziale reversibilità di quella stessa fisicità. Per Terragni, il monolito rappresenta la mortalità e la terra, la compostezza di fronte alla tragedia, la gravitazione come prova dell’universale certezza della morte. E questo soprattutto nelle iterazioni orizzontali, come il monolito di granito bianco di cinquanta tonnellate situato alla base del monumento ai Caduti di Como, il blocco lucido di sienite nera di Biella della casa del Fascio a Como, il lapis niger del Palazzo del Littorio (1934) e le dodici tonnellate di granito del sacrario della Casa del Fascio di Lissone (1937). Eppure anche questi dolmen non sono mai messi a dimora come fossero i coperchi chiusi per l’eternità di un antico sarcofago. La loro mole viene anzi fatta galleggiare in un modo che li assimila alla convenzionale associazione della stele all’eroismo, alla levitazione, all’ergersi in alto, al volo verso il cielo. Ciascun monolito diventa un’allegoria di (im)possibile trascendenza. Le torri del monumento ai Caduti di Como svettano dal blocco orizzontale sepolto alla loro base. La torre parabolica di ottanta metri del monumento alla Bonifica Integrale (1932) interseca e trova il suo doppio orizzontale in due muri da ottanta metri che stringono in mezzo una scala. Le pietre chiuse nel vetro dei sacrari sfidano la gravità e si librano leggere nell’aria; la loro stessa lucentezza smaterializza l’esacerbata materialità conferita dalla massa. Il blocco deve essere unico e non il prodotto di una simulazione (stucco rivestito in pietra). Le superfici devono essere trattate in armonia con la collocazione e l’effetto desiderato. Le proporzioni devono essere stabilite in accordo con le geometrie ideali, le proporzioni albertiane e le sezioni auree. Il trattamento e la scelta dal materiale da lavorare sono determinanti perché la materia è il monumento. In questo consisteva la sfida posta dal cippo Scarfatti. In ciascuna iterazione del progetto, dagli schizzi iniziali dei primi anni Trenta in cui una stele verticale con retro inclinato è montata in configurazioni a L verticali e orizzontali interconnesse terminanti in scale, al progetto intermedio con la lastra a U di metri 7 x 5,5 sospesa sopra un cubo di metri 2 x 2, al progetto finale ridotto con il cubo di metri 1,6 x 1,6, la chiave era costituita dal monolito. Il modo in cui issarlo per i 1.039 metri di Col d’Echele; la necessità che la lastra non fosse in granito (come originariamente previsto) bensì nella locale pietra bianca d’Asiago lavorata al grezzo in modo da riprodurre la ruvidezza dello stesso paesaggio montano; l’inadeguatezza di ogni soluzione che comportasse "lastroni riempiti di calcestruzzo"; il compromesso finale che comportò la divisione del blocco in due unità di sei tonnellate ciascuna; la sua collocazione all’interno degli assi cruciformi del monumento, in linea con i punti cardinali, in modo da suggerire un’ideale posizionalità globale: erano questi i principali punti di interesse dell’architetto. Ed essi rivelano una preoccupazione più profonda condivisa con il resto della nuova architettura commemorativa: concepire un monumento galleggiante di indispensabile semplicità e gravitas. Il monumento Sarfatti è costruito attorno a un triplo atto di levitazione. Il blocco, nel suo punto centrale, è dapprima estratto dalla pietra bianca della cava a valle, poi sollevato lungo il pendio e infine sulla scalinata. Sito dell’iscrizione che nomina colui che ricevette la medaglia a valore, sembra la testa geometrica di un corpo disteso che si innalza al cielo in un gesto sacrificale. Caratterizzare in tal modo questa opera significa inserirla in una stirpe di monumenti antecedenti che vede la propria origine nel monumento a Agatha Tyche di Goethe – dove, sopra una base rettangolare, è posta una sfera, proprio come sopra il blocco di Terragni "si posa" un panorama alpino a 360 gradi – per poi arrivare all’Edicola Achille (1950) di Figini e Pollini con le sue casse sepolcrali racchiuse in un cubo galleggiante più grande, sospeso in un allestimento teatrale le cui pareti sono trafitte da ripetuti tagli cruciformi. Significa anche suggerire legami più stretti di quanto non sembri a prima vista evidente con una schiera di altri monumenti del XX secolo come il monumento ai Caduti di Walter Gropius a Weimar (1921), il monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg di Mies (1926) e il monumento scultura alla Guerra d’Inverno di Alvar Aalto (1960), in cui vengono puntualmente riproposte destabilizzazioni o levitazioni della stele o del dolmen. Nel caso di Gropius, il dinamismo è ottenuto per mezzo di una serie di volumi diagonali intersecanti la cui reiterazione e rotazione ritmica suggeriscono l’idea di innalzamento, sollevamento e il saettare del fulmine. Nel caso di Mies, enormi blocchi, a loro volta composti da pietre irregolari, entrano ed escono liberamente dal muro di sostegno quasi alla ricerca di una collocazione definitiva all’interno di un perenne lavoro in corso (la costruzione di un mondo equo). Il paradosso della solidità animata dal movimento fu rafforzato dall’uso del monumento come podio e sede per i raduni politici dall’epoca della sua costruzione fino all’era nazista (su questo argomento si veda il saggio di Marco de Michelis nel presente volume). Nel caso di Aalto, il monolito diventa una colonna in bronzo inclinata che si assottiglia all’estremità a suggerire la fragile materialità di una fiamma che tremola sullo sfondo di campi innevati (fig. 6). Qui, come nel monumento Sarfatti, gli effetti anti-gravitazionali sono ottenuti nel contesto di una bivalente messa in scena della gravità. La dimensione è ridotta. Gli effetti monumentali sono perseguiti, mai però senza un’allusione di (potenziale) moto. Il cubo esploso Che il cubo levitato segua un percorso che travalica i confini del monumentino è attestato in tutta l’opera di Terragni, di cui una delle firme è l’alternanza ritmica fra volumi rettangolari positivi e negativi. Vengono alla mente innumerevoli esempi: progetti per ville come la Casa sul lago per artista presentato alla Triennale del 1933, la versione B del Palazzo del Littorio e l’Asilo Sant’Elia (1934; 1936), con il loro avvicendamento sincopato di cubi vuoti, a vetri e chiusi dentro e fuori una visibile griglia tridimensionale. Sono anticipati nelle prime edicole funerarie costruite per le famiglie Pirovano, Ortelli e Stecchini, con le loro interne celle segrete e i gusci esterni con nicchie simmetriche scavate a geometrie rettangolari. Ma la variante di questa operazione che per la prima volta scoperchia il cubo levitato si ha con la Casa del Fascio a Como, dove il gioco delle superfici riflettenti (vetro, metallo, pietra) ne smaterializza i contorni. Come risultato, le pareti cominciano a sganciarsi dalla scatola centrale aprendo fenditure verticali e orizzontali, feritoie dentro e fuori la cripta, passaggi segreti fra il monumento e il mondo. La geometria ideale del cubo viene lasciata intatta, ma invece di trovarsi esibita come massa sopraelevata, essa viene lievitata, espansa, perfino esplosa.
È il tema centrale dell’edicola Mambretti, con la facciata quadrata sollevata (prima versione), la cripta che fa capolino e il muro e la facciata laterali sganciati (versione del 1938). Trionfa nel Danteum Terragni-Lingeri (1938-1940) (fig. 7) che scoperchia la scatola. Dopo aver attraversato una serie di accessi laterali creati per mezzo di doppi muri, il visitatore di questo "monumento vivente" viene guidato attraverso una sequenza di ambienti ciascuno dei quali è una trasposizione architettonica di una delle cantiche dantesche. Il punto di partenza è rappresentato da un’esperienza del cubo come spazio di peso e reclusione (Inferno assimilato alla cella di una prigione); il punto di arrivo, da un’esperienza del cubo come spazio di leggerezza e libertà (Paradiso assimilato al volo). Terragni raffigura quest’ultimo come un cortile aperto sopraelevato, con una griglia nuda sopra una schiera di colonne di vetro (a malapena corporee) riflesse in un pavimento che assume la forma di una griglia di pietre circondate da vetro. Analogamente a questi laterali "tagli" di vetro nel pavimento del Paradiso, dei tagli verticali praticati in porzioni scelte della struttura complessiva dell’edificio ne smaterializzano i contorni, stabilendo al tempo stesso delle linee di fuga fra gli spazi interni e il complesso monumentale di Via dell’Impero, quasi a voler insinuare che la spinta complessiva del Danteum verso un impero celeste totalmente "svincolato dalla schiavitù del peso" potesse potenzialmente abbracciare l’interezza della Roma antica e moderna: dalla Basilica di Massenzio e il Colosseo a piazza Venezia. La produttività di questa ricomposizione o scomposizione del cubo pervade la nuova architettura dei monumenti siano essi pre o post-razionalisti. In chiave minore, è già implicita nel proposto mausoleo per Max Dvorak in basalto nero di Loos (1921) la cui elementare struttura a scatola si rastrema in alto come uno ziggurat, ma alleggerisce il blocco verticale alla base per mezzo di finestre e di una porta. Similmente, il padiglione danese in mattoni e cemento di Fisker (1925), monumentale nei suoi tratti benché non un monumento nel senso stretto del termine, effettua un sottile gioco di sottrazioni, addizioni e spostamenti di volumi rettilinei che contemporaneamente rafforzano l’apertura e la chiusura del suo nucleo rettilineo e infondono all’orizzontalità delle sue linee e della sua massa una potente spinta verticale dalla massiccia base cruciforme. Discendenti più diretti di Terragni, tuttavia, sono i tre capolavori dell’architettura commemorativa italiana post-bellica: il monumento alla Resistenza di Cuneo di Aldo Rossi (1960), il monumento ai caduti nei campi nazisti di BBPR (1945; 1951; 1961) e la postuma Tomba Galli di Carlo Scarpa (1978). Con straordinaria economia di mezzi, il primo seziona un cubo di 12 metri per mezzo di una scala che taglia un percorso ascensionale nella sua massa conducendo a quella che potrebbe sembrare la cripta posta al centro di una piramide faraonica. Lo stretto passaggio porta invece a una corte aperta innalzata come il Paradiso del Danteum: una maestosa piazza pubblico-privata e palco nel cielo recisa soltanto da una feritoia ad altezza d’uomo tagliata nel muro opposto al punto d’entrata. Il monumento di BBPR (fig. 8), al contrario, rimuove la massa di un convenzionale cubo funerario in pietra per mezzo di una griglia metallica aperta su tutti e sei i lati. Le unità d’angolo della griglia sono cubiche, mentre quelle interne sono rettangolari, fornendo così una spazializzazione della piattaforma coperta di marmo in forma di croce greca sulla quale è posata la gabbia. Un’urna chiusa nel vetro (contenente terra proveniente dal campo di concentramento di Mathausen) è appesa nel recesso cubico più centrale, come librata nell’aria sopra la giunzione della croce, mentre alcuni pannelli sospesi lateralmente evocano la rinascita della libertà e la "scia di luce [che] ricorda i nostri martiri" . L’opera di Scarpa, seppure di evidente natura funeraria, esegue una ricca gamma di variazioni strutturali e formali evidenziando l’intrusione delle cuciture verticali e orizzontali che sottilmente disgregano l’integrità della massa cubica e si contrappongono a un taglio frontale a forma di tau, l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, associata a nozioni di svelamento ermetico e all’apocalisse. In questi e altri monumenti analoghi (compreso il monumento Sarfatti), i simboli tradizionali quali la croce ritornano più come principio strutturale, con connotazioni soltanto in parte tradizionali, che come simbolo sacrificale. Da un lato, gli architetti tornano indietro nel tempo per attingere da una miniera di segni precristiani o paleocristiani che associano la croce all’architettura del cosmo quali, ad esempio, la croce greca come rappresentazione dell’equatore e dell’eclittica, come cosmico chi del demiurgo di Platone nella sua storia della creazione, il "Timeo". Dall’altro, essi incrociano questi segni cosmologici con i moderni marcatori chiasmatici quali la piattaforma di atterraggio, il bersaglio, la X su una mappa, con un sguardo rivolto alla collocazione del monumento all’interno delle griglie ideali e delle geometrie del globo. La scala reversibile Il collegamento fra orizzontalità e verticalità, fra terra e cielo o superficie e profondità viene fornito dalla scala, sia essa intesa come mezzo di salita o discesa, o come emblema del moto reversibile. La scala lega i vivi ai morti nella forma di un sentiero, un corridoio, un luogo di passaggio. Se i monoliti raffigurano la testa o i piedi dei monumenti di Terragni, le scale forniscono il cuore, il sistema circolatorio e la muscolatura. Il Monumento ai Caduti di Erba costituisce un sorprendente esempio calzante con la sua cripta aperta sopraelevata, in bilico sulla sommità di cinque lunghe rampe di scale. La spinta ascensionale della scala è contrapposta alla spinta verso il basso creata dall’illusione che le scale si siano riversate lungo il pendio e abbiano invaso il volume rettangolare alla base, dando vita a una prima rampa semicircolare di scale i cui contorni arrotondati riecheggiano quelli della cripta (a sua volta fiancheggiata da scale ricurve che conducono all’esedra di coronamento). Questa reversibilità ascendente-discendente è parte integrante della riduzione operata da Terragni delle scale ai loro componenti geometrici essenziali in progetti maggiori quali le case del fascio di Como e Lissone dove delle nude scale rimangono sospese, come in precario equilibrio nell’aria, con le colonne montanti e i pianerottoli visibili sia da sopra che da sotto. Balaustre laterali di vetro si snodano e seguono il loro zigzagante andamento ascendente-discendente; a volte le scale stesse sono fatte di vetro. L’effetto è organizzato contro pareti in vetro alternamente trasparenti e semitrasparenti e sostenuto per mezzo di muri in cemento gettato sezionati da tagli laterali o verticali. A metà strada fra questi palesi trattamenti della scala e della sua controparte chiusa come le rampe-corridoio del Danteum e del Monumento alla Bonifica Intrigale, si pone il monumento Sarfatti con la sua scala per metà visibile e per metà nascosta. La porzione superiore attraversa la massa rettangolare del cippo per confluire alla fine nella piattaforma che ospita il monolito; la porzione inferiore tracima nel paesaggio, rivelando i contorni frastagliati del taglio laterale riflessi a loro volta nel pendio di Col d’Echele. Nel salirla, non si accede alla sorta di "evento" che i monumenti tradizionali di questo tipo avrebbero provocato: l’iscrizione Roberto Sarfatti, volontario diciassettenne, Medaglia d’Oro, Caporale del 6º Alpini, qui cadde, questa terra rivendicando all’Italia è di tono neutro e contrassegna il luogo senza fare nessun appello particolare alle nostre emozioni. Al visitatore viene invece fornita l’esperienza dei contorni grezzi di un cubo di dodici tonnellate e del vasto vuoto e del lontano profilo delle montagne che circondano la vetta. Come nel caso del Monumento alla Resistenza di Aldo Rossi, alla scala viene affidato un ruolo paradossale. Quello di fornire l’accesso non tanto a un’emozione commemorativa quanto a una sorta di utopico non-luogo: una piattaforma panoramica sopraelevata che, grazie all’ambientazione naturale (Terragni) o a una chiusura muraria propone un sottile artificio di percezione. Nel salirne i gradini, l’osservatore si ritrova elevato e al tempo stesso al di sotto di un ambiente ancor più elevato. La stessa operazione di astrazione della scala dalle semplici equazioni di movimento ascendente o discendente o di sviluppo orientato a una meta, si estende al terzo degli approcci di Terragni al tema della scala: quello rappresentato dal Monumento alla Bonifica Integrale la cui scalinata chiusa conduce per un quarto della salita all’interno dell’arco di una torre parabolica di ottanta metri. [FOTO 9] La torre svetta simile a una versione mozzata di una ciminiera di De Chirico o alla nervatura di rinforzo di una diga idroelettrica, la cui curvatura alloggia alla base una piattaforma a cuneo su cui poggia il pozzo della scala. Una breve rampa che conduce alla chiusura a doppia parete anticipa il sezionamento diagonale delle pareti reclinate effettuato dall’invisibile gradinata. Il passaggio è privo di scopo, "disinteressato" in senso kantiano. Si limita a bisecare, offrendo un’esperienza interiore della sublimità e della potenza espressiva delle geometrie pure che testimoniano un’epoca di eroici progetti pubblici: dighe, canali, centrali idroelettriche. Il nuovo monumento (anti)commemorativo diventa un geometrico strumento di contemplazione che trasfigura i particolari storici in universali formali e strutturali. Che la scalinata fra due pareti si ritrovi così caricata di una funzione propagandistica non esclude altri usi: funebri nel caso del corridoio che conduce alla tomba Mambretti, dimostrativo nel caso dell’entrata del Danteum in una selva oscura di colonne. E nemmeno esclude rielaborazioni dello stesso tema come nel caso del Monumento ai Partigiani di Rossi a Segrate (1965). Qui, come nel Monumento alla Bonifica, la scala Sarfatti è completamente infilata fra due massicce pareti, dando forma a un sarcofago dalle due estremità aperte. In quello che equivale ad un astuto adattamento geometrico dell’iconografia della resurrezione delle anime nel Giorno del Giudizio, tuttavia, Rossi trasforma la scala astratta in uno strumento per aprire a forza il coperchio della tomba tradizionale. È come se un malizioso titano occulto avesse fatto scivolare il vuoto coperchio piramidale della tomba giù fino in fondo al pozzo della scala, per poi appoggiarlo in cima a una grossa colonna come un dolmen megalitico. Altri resti architettonici sono sparsi per tutta la Piazza del Municipio come tanti giocattoli rotti, i resti di un Lego assiro-babilonese. La cripta all’aperto Con il Monumento alla Resistenza di Rossi, questa esplorazione della nuova architettura dei monumenti raggiunge la destinazione finale di ogni viaggio nel regno dei morti: la cripta (dal greco κρύπτός o kryptos = nascosto), la camera sepolcrale e luogo di sepoltura per antonomasia – uno spazio depositario del non insignificante compito di mantenere i morti eternamente in vita. I dubbi circa il desiderio e/o la capacità della modernità di costruire simili spazi costituiscono il tratto ricorrente dei dibattiti sui monumenti e la monumentalità da Mumford a Sert, Léger e Giedion. Per Mumford, il compito era nel contempo deprecabile e impossibile: "deprecabile" perché antidemocratico e contrario all’autorinnovamento della vita; "impossibile" perché, in un’epoca di mancanza di fede nell’eternità dell’anima, la pietra alimenta "un falso senso di continuità, un’ingannevole certezza di vita … le pietre che sono abbandonate dai vivi sono ancor più inermi della vita che rimane indifesa e conservata dalle pietre". Per Sert, Léger e Giedion, il problema è invece la perdita di una "coscienza e cultura unificanti" che conferirebbero ai monumenti l’indispensabile forza espressiva: "i periodi che esistono per il momento non sono stati in grado di creare monumenti duraturi". Eppure, rimane la prospettiva di un nuovo monumentalismo che trascenda la pura e semplice funzionalità in nome di un approccio lirico che animi le pietre morte di colore, luce, vegetazione, materiali leggeri come piume. In un caso o nell’altro, la sfida, possibile o impossibile, che una moderna architettura della commemorazione si trova ad affrontare consiste nel porre la cripta a servizio della vita. Il monumento moderno deve eseguire quello che per Freud è la riuscita rielaborazione del lutto: mantenere in vita i morti tenendoli sepolti in eterno; ricordarli, certo, ma anche disaggregarli dalla scena contemporanea; consacrarli come quel qualcosa che è chiuso, completato, finito, avvolto nel dinamismo e nell’infinito del momento presente. È questo il senso della nuova architettura delle cripte, il cui gesto emblematico è quello di minare un vocabolario arcaico di forme costruttive elementari trasferendo il sancta sanctorum all’aperto, sia che si tratti di una vetta alpina o una piazza cittadina. Esposta alla visione pubblica, la camera sepolcrale diventa luogo di interesse turistico piuttosto che luogo di tormento spettrale. Non è più necessario che custodisca resti fisici – Sarfatti, Luxemburg, Liebknecht, i caduti…. se sepolti, sono sepolti altrove. E nel caso in cui li custodisce, i morti restano sepolti anche se la volta è priva di copertura. L’evocativa Tomba Rocco Scotellaro (1957) di BBPR quindi si avvale di una delle più arcaiche forme di costruzione antiche che predata l’intera storia dell’architettura occidentale: il finto arco. Sollevandosi sopra la tomba del poeta, due estensioni verticali del sottostante muro di sostegno (invisibile a chi sta di fronte al monumento), si accumulano blocco dopo blocco, movendosi sempre più all’interno a mano a mano che si avvicinano alla sommità. Eppure al posto della pietra di coronamento c’è il vuoto. Il cielo invade lo spazio della cripta e "completa" l’arco, esattamente come la lastra di pietra perpendicolare che attraversa il monumento e reca l’iscrizione funeraria funge da sorta di ponte sospeso fra la terraferma del cimitero e il vuoto che si estende oltre il suo muro di cinta. Dalla tomba Ortelli (1929), con il suo soffitto semiopaco in onice, allo svettante monumento Sant’Elia, ai sacrari in vetro delle case del Fascio, fino al Danteum con il suo paradiso a cielo aperto, le cripte di Terragni, come tutti i suoi monumento nel loro complesso, seguono una qualche versione della stessa cripta. Essi oppongono la gravitazione alla levitazione, l’opacità alla trasparenza, il solido al vuoto, la pietra al vetro, mettendo in gioco forme di occultamento nel nome di un’apocalisse della struttura. Tale rivelazione non promette naturalmente un superamento delle perdite della storia, per non parlare di una vera e propria resurrezione dei morti. Essa ne fornisce piuttosto l’equivalente laico: un’esperienza di bellezza nella sua forma più pura e naturale; un naturale sovrannaturale adatto ai bisogni e ai gusti di un’epoca meccanica; una cripta che crepita delle ultime notizie: Che l’osservatore entri o non entri nel concetto allegorico del monumento è per me una cosa di importanza non definitiva; l’importante è che egli si senta "commosso" dall’armonia delle proporzioni, dall’imponenza delle masse, dall’equilibrato rapporto di luci e di ombre sui volumi. La sensibilità nostra attuale ci porta a questa grande semplicità di godimento estetico: "che non ci accorgiamo" delle pure bellissime incisioni che decorano tutte le superfici di un obelisco, per ammirare in tale monumento il pregio dell’opera monolitica, il valore cromatico della pietra al sole, la bellezza dello slancio verticale; che preferiamo considerare nella massa "architettonica" una "colonna traiana" anziché addentrarci nella contemplazione della "storia scolpita" che tutta l’avvolge; che preferiamo la rude bellezza costruttiva di una basilica di Massenzio dalle nude imponenti volte a lacunari, alle "frivolezze decorative" di un arco di Settimo Severo. Quello che ci spinge tanto lontano a ritroso nel tempo alla ricerca di emozioni pure e semplici dell’arcaica architettura è un bisogno tutto nostro di questa nostra meravigliosa età meccanica che cela sotto quattro pareti lisce di un "cofanetto" la più perfetta, la più decorativa nei suoi delicati organi, la più sovrannaturale macchina che conosca: la radio. Il compito dell’architettura moderna inteso da Giuseppe Terragni: dotare il monumento della voce del presente.
Illustrazioni L’Aquitania come città galleggiante, Vers une architecture p. 71 Le geometrie elementari di Froebel, Vers une architecture p. 128 Sol LeWitt, Black Form Dedicated to Missing Jews (1989) Esther e Jochen Gerz, sinking Monument Against Fascism in Hamburg (1986-1993); nel momento della sua inaugurazione Esther e Jochen Gerz, sinking Monument Against Fascism in Hamburg (1986-1993); nel momento del suo sprofondamento Alvar Aalto, Monumento alla guerra d’inverno, Suomussalmi, 1960 Giuseppe Terragni, modello del Danteum; scansionato da Ciucci, Giuseppe Terragni 1904-1943, p. 277 BBPR, Monumento ai caduti nei campi nazisti, scansionato da Ulrike Jehle-Schulte Strathaus and Bruno Reichlin, BBPR Monumento ai caduti nei campi nazisti 1945-1995 – Il segno della memoria, Electa, Milano 1995, p. 49 Giuseppe Terragni, modello del Monumento alla Bonifica Integrale, scansionato da Ciucci, Giuseppe Terragni 1904-1943, p. 375
Il Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza e Il Centro Studi Giuseppe Terragni di Como presentano la mostra
IN CIMA. Giuseppe Terragni per Margherita Sarfatti Architetture della memoria nel ‘900 Vicenza, Museo Palladio/palazzo Barbaran da Porto, 27 giugno 2004 – 9 gennaio 2005 inaugurazione: sabato 26 giugno 2004 COMUNICATO STAMPA – INVITO
A Vicenza una mostra internazionale presenta i capolavori del monumentalismo "anti-monumentale" dell’architettura moderna nel Novecento Nel 1934 Giuseppe Terragni realizza uno ieratico monumento sui prati dell’altipiano di Asiago, dove era stato rinvenuto il corpo di Roberto Sarfatti – il primogenito della famosa Margherita – caduto al fronte nel 1918, durante il primo conflitto mondiale. Per la protagonista del dibattito artistico e architettonico degli Anni venti e primi Anni trenta, Terragni progetta un memoriale che ancora oggi ci stupisce per la sua modernità: una "monumentalità senza stile" che riflette sulle forme primigenie dell’architettura e delinea un nuovo genere di retorica della commemorazione, con un uso dei materiali – soprattutto marmo e pietra – ricco di significati simbolici ed evocativi. Il nascente Movimento Moderno, guidato da figure quali Le Corbusier e Gropius, e sostenuto in Italia da personalità come Margherita Sarfatti, aveva lanciato un attacco frontale alle forme tradizionali del monumentalismo e dell’architettura commemorativa che si basavano su materiali tradizionali e sull’imitazione degli stili storici. Eppure fu proprio questa nuova generazione di architetti a essere chiamata a ricercare nuovi modi per celebrare il passato, soprattutto quello recente della prima guerra mondiale, e il supposto radioso futuro dei regimi totalitari che si andavano affermando in Germania, Italia e Unione Sovietica. Da tale apparente contraddizione nascerà un moderno monumentalismo, che nelle opere di Giuseppe Terragni raggiunge vertici di prima grandezza. I suoi monumenti e memoriali "anti-monumentali" rimandano a un vocabolario primordiale di monoliti, cubi e scale, e sono fra i capolavori dell’architettura del Novecento: dal monumento ai Caduti a Erba (1926) al monumento futurista-razionalista Sant’Elia a Como (1930), fino al progetto del monumento alla Divina Commedia, il Danteum, realizzato con Pietro Lingeri (1938), ma la nuova concezione di monumentalità pervade anche edifici come il Novocomum (1928) e la Casa del Fascio di Como (1934). A partire dal progetto di Terragni per il monumento Sarfatti, la mostra presenta circa 100 opere originali, fra modelli, quadri, sculture, disegni, stampe e libri, provenienti da collezioni pubbliche e private. La figura di Margherita Sarfatti come esponente chiave del Movimento Moderno in architettura sarà presentata con opere che documentano i suoi legami con i futuristi comaschi (come un disegno di Sant’Elia, raramente presentato al pubblico, e uno splendido ritratto di sua figlia Fiammetta di Umberto Boccioni); dipinti di artisti del gruppo Novecento quali Mario Sironi, Achille Funi e lo stesso Terragni; materiali d’archivio riguardanti le sue attività di promotrice del Razionalismo architettonico e il suo incarico per il monumento al figlio Roberto. Disegni originali, schizzi e plastici presenteranno i monumenti che Terragni progettò nell’arco della sua carriera, insieme agli aspetti "immateriai" e "materiali" della nuova sua nuova concezione di monumentalità. Le forme archetipiche del monumento Sarfatti e degli altri monumenti – cubo, monolite, scala, croce – saranno esaminate in rapporto ai loro riferimenti all’intera architettura dello stesso Terragni e a una più ampia costellazione di monumenti moderni di architetti da Loos a Gropius, da Lingeri a Mies, da Aldo Rossi a Carlo Scarpa. Negli Anni venti del Novecento Adolf Loos diceva che l’architettura può essere arte solo nella tomba e nel monumento. Tale affermazione oggi appare messa in crisi da edifici – come la Grande Arche di Parigi o il Guggenheim Museum a Bilbao – concepiti come oggetti autonomi, sostanzialmente indifferenti alle funzioni e al contesto: veri e propri monumenti a se stessi. In questo senso una riflessione sul monumentalismo dell’architettura del secolo appena trascorso è particolarmente attuale. La mostra è curata da Jeffrey T. Schnapp, direttore dello Stanford Humanities Laboratory di Stanford University (California, USA), autorità riconosciuta nel campo della cultura letteraria e artistica italiana del XX secolo, curatore degli scritti teatrali di Filippo Tommaso Marinetti (Mondadori 2004) e di 18 BL. Mussolini e l'opera d'arte di massa (Garzanti 1996), Gaetano Ciocca. Costruttore, inventore, agricoltore, scrittore (Skira 2000), Vedette fiumane. L'occupazione vista e vissuta da Madeleine Witherspoon Dent Gori-Montanelli (Marsilio 2000), Anno X. La Mostra della Rivoluzione fascista del 1932 (IEP Internazionale 2003). Il catalogo, edito da Marsilio, presenta contributi di Ilaria Abbondandolo, Marco De Michelis, Kurt W. Forster, Almut Goldhahn, Reinhart Kosellek, Massimo Martignoni, Maddalena Scimemi, Marina Sommella, Elisabetta Terragni, Vitale Zanchettin.
IN CIMA. Giuseppe Terragni per Margherita Sarfatti. Architetture della memoria nel Novecento Vicenza, Museo Palladio/palazzo Barbaran da Porto, contrà Porti 11, dal 27 giugno 2004 al 9 gennaio 2005 Aperto tutti i giorni, escluso il lunedì, ore 10-18. Ingresso al Palazzo: intero 5 Euro; ridotto 3 Euro; gruppi, università e scuole 2 Euro Mostra promossa e organizzata da: Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio e Centro Studi Giuseppe Terragni di Como Grazie al sostegno di: Regione del Veneto A cura di: Jeffrey T. Schnapp Catalogo: Marsilio Editori Per informazioni: Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio www.cisapalladio.org tel. 0444 323014 fax 0444 322869 email: segreteria@cisapalladio.orgUfficio Stampa: Studio ESSECI – Sergio Campagnolo tel. 049.663499 fax 049.655098 email info@studioesseci.net
Nota Informativa
LE BIOGRAFIE
Giuseppe Ercole Enea Terragni (1904-1943) Nasce a Meda, vicino Milano, il 18 aprile 1904. A Como, dove la famiglia vive dal 1909, si diploma all’Istituto Tecnico. Nel 1921 si iscrive al Politecnico di Milano-Scuola superiore di architettura, laureandosi giovanissimo nell’ottobre del 1926. A questo periodo risalgono il primo progetto di concorso per il monumento ai Caduti di Como, realizzato nel 1931-33 secondo una successiva proposta, e il monumento ai Caduti di Erba Incino. Sono gli anni del Gruppo 7 – composto da Terragni, Libera, Figini, Pollini, Frette, Larco e Rava – autore su "Rassegna Italiana" del manifesto del Razionalismo italiano. Dal 1927 ha, assieme al fratello maggiore Attilio, uno studio a Como. Seguono importanti realizzazioni, come il Novocomum (1927-29) e la Casa del Fascio a Como (1932-36), e numerose partecipazioni a mostre, congressi (CIAM, 1933) ed esposizioni d’arte e d’architettura anche internazionali. Nel 1933 fonda con i compagni astrattisti la rivista «Quadrante». Partecipa ai grandi concorsi romani (1934-38): il primo e secondo grado del palazzo del Littorio, e il primo e secondo grado del palazzo dei Ricevimenti e Congressi all’E42. Degli stessi anni è il monumento a Roberto Sarfatti sul Col d’Echele, commissionatogli da Margherita Sarfatti. Tra il 1936 e il 1937 realizza la villa Bianca a Seveso e l’asilo Sant’Elia a Como. In seguito si occupa dei progetti del Danteum, in collaborazione con Pietro Lingeri, e della sistemazione del quartiere Cortesella, della Casa del Fascio di Lissone e della casa Giuliani Frigerio, suo ultimo capolavoro realizzato. Chiamato alle armi, viene inviato nel 1941 prima in Jugoslavia e poi in Russia da dove ritorna nel 1943 seriamente provato sia nel fisico che nel morale; muore a Como il 19 luglio dello stesso anno.
Margherita Grassini Sarfatti (1880-1961) Nata da una ricca famiglia veneziana l’8 aprile 1880, sposa nel 1898 l’avvocato Cesare Sarfatti. Nel 1902 la coppia si trasferisce a Milano dove Margherita frequenta l’élite intellettuale e collabora con fogli e giornali, specialmente d’area socialista, per i quali scrive d’arte e di politica. Tra le sue amicizie si contano Umberto Boccioni, Achile Funi, Mario Sironi e molti altri artisti, spesso ospiti della sua casa "Il Soldo" a Cavallasca sul lago di Como. Scrittrice e critica d’arte, riunisce nel gruppo Novecento i principali maestri del tempo di cui possiede essa stessa svariate opere. Nel dicembre del 1912 incontra Mussolini, allora direttore de "L’Avanti". Nel gennaio 1918 il figlio diciottenne Roberto cade sul Col d’Echele (altopiano di Asiago) durante un’azione militare che gli varrà la medaglia d’oro. Quando, sedici anno dopo, il corpo del giovane caporale viene ritrovato, la madre decide di affidare a Giuseppe Terragni il progetto del suo monumento, inaugurato nel 1938, poco prima che Margherita abbondoni l’Italia in seguito alle leggi razziali (sia la madre, Emma Levi, sia il marito sono di origine ebrea). Si muove tra l’Europa e le Americhe, continuando a scrivere su giornali e a pubblicare testi d’arte e cultura. Nel 1947 fa ritorno in Italia; muore, pressoché dimenticata, il 30 ottobre 1961. IN CIMA. Giuseppe Terragni per Margherita Sarfatti architetture della memoria nel '900
MONOGRAFIE, CATALOGHI E RIVISTE Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Biblioteca Angelo Monteverdi di Roma, Collezioni private: M. Sarfatti, I vivi e l’ombra. Liriche, A. Mondadori, Milano 1919, 1921, 1934 M. Sarfatti, Funi Achille, Ulrico Hoepli, Milano 1925 M. Sarfatti, Segni, Colori e luci. Note d’arte, Nicola Zanichelli, Bologna 1925 M. Sarfatti, Storia della pittura moderna, collezione "Prisma" diretta da M.G. Sarfatti, Cremonese, Roma 1930 Alfredo Panzini, La penultima moda, Collezione Prisma, Cremonese, Roma 1930 M. Sarfatti, L’America. Ricerca della felicità, collezione "Tempo nostro", 9, Mondadori, Milano 1937 Marcello Piacentini, Architettura d’oggi, collezione Prisma, Paolo Cremonese, Roma 1930 Margherita Sarfatti, a cura di, Roberto Sarfatti, le sue lettere e testimonianze di lui: Ada Negri, Gabriele D’Annunzio, Paolo Buzzi, Benito Mussolini, Alfredo Panzini, Luigi Siciliani, Istituto Editoriale Italiano, Milano, s.d. (gennaio 1919) Alfredo Panzini, Gli eroi. Roberto Sarfatti. Profilo di Alfredo Panzini, Opera nazionale dedicatata agli artefici della vittoria, n. 35, Società tipografica ed editrice Porta, 1924 21 Artistes du Novecento italien, catalogo della "Seconda mostra di artisti del Novecento italiano", Galerie Moos, Genève, giugno-luglio 1929, Sonor s.a., Genève 1929 Moderne Italianer, catalogo della mostra, Kunsthalle Basel, 5 gennaio – 2 febbraio 1930, Basel 1930 Artisti della nuova italia – Kunstler des neuen Italien, Catalogo della mostra, Kunsthalle Bern, 16 marzo – 4 maggio 1930, Bern 1930 Mostra delle opere dell’architetto futurista comasco Sant’Elia. Catalogo, catalogo della mostra, Como, Broletto, 14 settembre – 3 ottobre 1930, Tipografia Emo Cavalleri, Como 1930 Alberto Sartoris, Sant’Elia, Giovanni Scheiwiller, Milano 1930 |
Ultimo aggiornamento: 16-06-05