La Via del TABACCO 22-02-13 17.06.19 |
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Con la mostra "IL TABACCO IN VALBRENTA: STORIA E COLTIVAZIONE", allestita presso il museo del tabacco a Carpanè, inizia la serie delle esposizioni tematiche dedicate ad approfondire la "cultura" del tabacco in Valbrenta. Periodicamente verranno infatti allestite specifiche mostre riguardanti l'ambiente, l'economia, la storia, la società che ruotava attorno a questa coltivazione che per secoli ha caratterizzato la nostra valle. La mostra "Il tabacco in Valbrenta: storia e coltivazione" presenta, inquadrati all'interno della storia locale del tabacco, una serie di manifesti e lettere, acquisiti dalla Comunità montana del Brenta presso raccolte private, documentanti la particolare attenzione che i governi col tempo succedutisi dedicarono questa coltura "strategica". A questa sezione seguono gli acquerelli del pittore valstagnese Ettore Lazzarotto, che non solo illustrano, ma ricostruiscono con fedeltà storica le varie fasi della coltivazione del tabacco come venivano effettuate nella nostra Valle. Nell'inviare le tavole e complimentandosi per l'iniziativa, Ettore Lazzarotto scriveva: "Sono certo che farete una bellissima cosa ricordando così tutte le fatiche, tutti i sacrifici, tutte le speranze e, sovente, tutta la disperazione della nostra gente nel coltivare il tabacco, fonte quasi unica di sostentamento e di vita". I testi di entrambe le sezioni sono stati curati da Renato Pontarollo.
"Di tabacco si muore" sostiene la scienza; "Di tabacco si vive" (o meglio si viveva!) affermava la gente della Valbrenta. Questo tratto di valle, circondata dalle pareti rocciose del Massiccio del Grappa e dell’Altipiano dei "Sette Comuni", offre immagini caratteristiche e poetiche con tutta una serie di borgate allungate sulle sponde del fiume Brenta. La vita quassù non è stata mai facile! La struttura fisica della Vallata del Canale di Brenta è tale per cui è azzardato parlare di economia strutturata e di coltivazioni intensive. Si strappava alla terra il pane ed il "companatico" necessario con metodi tradizionali ed essenziali. Il bestiame trovava di che alimentarsi con il fieno colto sugli erti pendii e nelle malghe; con il legno dei boschi montani, affidato alla corrente del fiume, viveva la maggior parte dei paesi del Canale. L’impetuoso e talvolta bizzarro e minaccioso fiume offriva la forza motrice per gli opifici. A rivoluzionare la povera economia della Valle arrivò, nella seconda metà del seicento, una pianta esotica: il TABACCO. Della plurisecolare coltivazione, oggi quasi estinta, rimane il ricordo nei caratteristici terrazzamenti sostenuti con "muri a secco" e denominati "masiere" che si innalzano sui pendii delle montagne fino a 400-500 metri sul livello del Brenta. Si continua oggi, su qualche fazzoletto di terra, a coltivare il tabacco, ma a fondo valle, più vicino alle abitazioni, dove la fatica è minore. Ma per secoli dalla coltivazione del tabacco e dal suo contrabbando la gente del Canale di Brenta aveva ricavato quel minimo che le garantisse almeno la sussistenza. Le vicende legate al contrabbando del tabacco nel Canale di Brenta sono una memoria storica che rischia ormai di essere rimossa dal ricordo e dalla stessa cultura della gente valligiana. Abbandonata definitivamente la coltivazione del tabacco e, con l’andar del tempo, passati a miglior vita i nostri anziani tenacemente legati alla terra e alle sue secolari tradizioni, le nuove generazioni sembrano destinate a dimenticare facilmente storia lontana e recente degli avi e le loro fatiche quotidiane, incalzate da una radicale trasformazione delle abitudini di vita e da condizioni socio-economiche in rapida e frenetica evoluzione. Eppure anche la figura del contrabbandiere, strettamente vincolata alla coltura del tabacco e ancor più all’estrema povertà della gente valligiana, fa parte di una epopea storica che merita di essere ricordata e tramandata. E’ la mentalità tipica del contrabbandiere, fortemente radicata nei "canaloti" e nei montanari dei territori contigui, ad essere parte integrante del tessuto sociale di questa gente, che fin dalle epoche più remote ha saputo prima adattarsi e convivere con questa "mala terra", aspra e selvaggia, poi ad industrializzarsi in mille maniere, legittime o meno, per sopravvivere. Con le prime attività colturali e quindi artigiane e commerciali, la nostra gente si avvia piano piano a praticare forme di commercio al limite della legalità. Fin dal 1500 e nei secoli successivi, i "canaloti" commerciavano in legname, carbone, "biade". E in piena guerra di Cambrai, pur confermando la loro piena e provata fedeltà alla Serenissima Repubblica di Venezia, fornivano di varie mercanzie le genti della pianura e della città, e oltre confine trafficavano con le popolazioni trentine e con gli stessi emissari dell’imperatore Massimiliano I. Tutte vicende ed avvenimenti che narrano di una storia infinita, durata secoli, fino alla Grande Guerra e oltre, concludendosi nel secondo dopoguerra. Fatti che parlano di condizioni di vita estremamente difficili, di una gente che ha conosciuto la miseria, la fame e la disoccupazione e per questo costretta ad abbandonare in successive emigrazioni di massa la propria terra, amata sempre e mai odiata, sognando altrove benessere e ricchezza. Nemmeno disastrose e tragiche "brentane" sono riuscite a sradicare dalla propria valle queste genti e chi è andato lontano ha portato con sé, tramandando di generazione in generazione, lingua, cultura, tradizioni, storia e religione. Al periodo più recente, quello del dopoguerra, sono pure legate le vicissitudini di tante donne, sole ad allevare una prole numerosa, perché i mariti in terra straniera lavoravano o cercavano fortuna. Con un carretto, chi poteva, di solito con una malandata bicicletta o anche a piedi, scendeva nella fascia pedemontana e alla pianura, a Bessica di Loria, a Castelfranco, a Scaldaferro, a Pozzoleone e oltre, contrabbandando il tabacco e risaliva con un sacco di farina o altri generi di prima necessità. Oppure percorreva la Valsugana in treno o con mezzi di fortuna raggiungendo Borgo, Levico, Calceranica, Pergine e Trento per riportare a casa qualche manciata di fagioli ed altre mercanzie. Tutte cose estremamente necessarie per sopravvivere alla meno peggio o semplicemente per tirare a campare. Altre scelte non erano possibili!
Fino a non molto tempo fa, i ripidi versanti della Valbrenta, sistemati a terrazzi, erano coltivati a tabacco: ben 20 milioni di piante ogni anno, sorvegliate con occhio acuto dai verificatori e dalle guardie di finanza dello Stato. La coltivazione del tabacco si diffuse in Europa solo dopo il 1560; quando e come sia arrivato nel Canale di Brenta la pianta del tabacco non è storicamente documentabile. Si dice che, tra la metà e la fine del sedicesimo secolo, un monaco benedettino avrebbe portato con sé. nel convento di Campese. alcuni semi della pianta del tabacco, pianta allora denominata Erba del Gran Priore" o Erba Santa" (per la polvere starnutatoria che se ne poteva ricavare). Gli abitanti della destra Brenta e dei Sette Comuni iniziarono così, nella nostra zona, una nuova coltura. Con il diffondersi dell’uso del tabacco la Repubblica di Venezia, fiutatane l’importanza commerciale, impose sul tabacco un dazio sull’importazione e un decreto del 1654 ne vietò la semina, l’impianto, la vendita privata. Fino al 1702, basandosi sugli antichi loro privilegi, i nostri paesi poterono comunque continuare la coltivazione che anzi andò espandendosi sempre più. La coltivazione del tabacco andò così a sostituire l’originaria coltivazione estensiva di canevo o canapa, insieme ai gelsi, al granoturco e al miglio. Un decreto del 1703 ed altri successivi della Serenissima proibirono tassativamente la coltivazione del tabacco. Nel 1760 Venezia decise di far cessare l'abuso e mandò nei paesi del Canale un ispettore con l'incarico di eliminare tutte le coltivazioni di tabacco. Presso Bassano un montanaro attentò alla vita del funzionario della Serenissima, ma questi si salvò ed eseguì scrupolosamente l'incarico dato. Malgrado ciò la coltivazione riprese e tra il 1763 e il 1796 furono stipulati tre contratti sulla lavorazione del tabacco tra i rappresentanti della Repubblica ed i Comuni di Valstagna, Oliero, Campolongo e Campese. Severe punizioni erano previste contro chi avesse tentato il contrabbando. L’Austria (1797-1805), succeduta al dominio veneziano, confermò i privilegi già goduti, compresa la coltivazione del tabacco (1800). Durante il napoleonico Regno d’Italia (1806-1813) regolava la coltivazione del tabacco un decreto emanato il 23 luglio 1811, ispirato da Antonio Maria Valente. Tornata l’Austria (1813-1866), con decreto del 22 gennaio 1815, ebbero concessione di coltivare anche i paesi della sinistra Brenta, Cismon, Carpané, San Nazario e Solagna, concessione supportata da "imprestanza" (sovvenzione) confermata, nel 1817, da Francesco I d’Austria, di passaggio da queste parti. San Nazario immortalò la grazia regale con una lapide che fa bella mostra di sé nel piazzale della chiesa. L’Austria si serviva dei tabacchi del Canal di Brenta per la fabbricazione dei "rapati" e della "polvere da fiuto". Alle primitive "grazie" successero "restrizioni" varie. Il governo austriaco, in considerazione dell’abbondanza di tabacco prodotto, avviava una campagna ostruzionistica contro il "Nostrano del Brenta" dimezzando, fin dal 1819, il prezzo del tabacco, alterando le regole di consegna, provocando tra i valligiani malessere e propensione al contrabbando. Senza i proventi del tabacco, la Valle sarebbe ripiombata nella miseria più nera. Ecco allora una nuova grazia imperiale: il privilegio della coltivazione veniva confermato il 26 aprile 1824 a tempo indeterminato, con la concessione, una tantum, di un lauto contributo per ovviare ai danni patiti nelle annate precedenti. In seguito alla prima guerra d'indipendenza (1848-1849), l’Austria sospese il privilegio per la coltivazione del tabacco, trasformandolo in semplice sovrana concessione, perché i Canaloti avevano partecipato con fervore patriottico ai moti per l’indipendenza d’Italia. Per quanto riguarda la coltivazione del tabacco nella Vallata tutto continuò come prima. Con l’annessione al Regno d’Italia (1866), i contratti con il Monopolio favorirono la coltivazione dell’Avanone (tra le varietà di tabacco - Cuchetto, Avanetta, Avanone e Campesano - era la più combustibile e adatta quindi al mutato uso del tabacco, che dal fiuto era passato al fumo). Anche il sistema di addebito per la consegna del tabacco, un tempo a peso, fu cambiato introducendo il conteggio del numero delle foglie (solo tra il 1954 e il '55 si sarebbe passati dall’addebito a piante ad un addebito a superficie e quindi a peso). "La coltivazione dl tabacco — è scritto in un documento dell’epoca di Andrea Secco, presidente del Consorzio agrario di Bassano — è l’unica di questi paesi; è la sola che tiene stentatamente in vita circa 16.000 persone; e le derrate tutte che sono indispensabili alla vita, i coltivatori di tabacco devono comperarsele a denaro fuori della vallata. Si aggiunga a ciò la circostanza che la grande maggioranza dei coltivatori è obbligata a comperare tali derrate a credito per poi pagarle in capo all’anno col ricavato del tabacco che consegna alla Regia". Occupazione e sviluppo demografico alla fine dell’Ottocento erano nel Canale di Brenta assai gravi. Assistiamo così, tra il 1870 e 1’80, ad un massiccio esodo della nostra popolazione verso terre lontane, in Europa e Oltreoceano. A spingere tanta gente a lasciare la propria terra sono le dure condizioni di vita, la mancanza di lavoro, è il trattamento ingiusto e insopportabile riservato a chi è costretto a coltivare il tabacco, assoggettandosi a norme fiscali e pesantemente vessatorie da parte della Regia dei Tabacchi, cioè il Monopolio dello Stato. Tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento, a causa della fiscalità governativa e di chi era addetto all’applicazione delle relative disposizioni, il contrabbando si fece più acuto. Dal 1924 una nuova disciplina regolamentava la coltivazione del tabacco attraverso concessioni speciali (su una parte del comune di Bassano e Pove) e concessioni di manifesto, (nei comuni del Canale di Brenta); in quest'ultimo caso il prodotto doveva essere consegnato esclusivamente al magazzino dell’agenzia di Carpané. I coltivatori dovevano sottostare ad alcune tasse e a numerose prescrizioni. Una serie di norme dovevano essere rispettate rigorosamente per non incorrere in sanzioni, sempre gravose e temute per le condizioni economiche della gente valligiana, povera ed indigente. Nel 1939 con il "Consorzio tabacchicoltori - Bassano del Grappa" si costituì un’associazione tra i contadini stessi di Pove e di Campese (Bassano) che godevano della concessione speciale. La consegna e quindi la vendita del prodotto in colli vennero effettuate fino al 1970 esclusivamente con lo Stato. Dopo tale data, la vendita del tabacco venne liberalizzata: ogni coltivatore, a propria discrezione, poteva effettuarlo con il Monopolio o con altri Enti. Dal 1970 quasi tutti i contadini con concessione di Manifesto aderirono alla Cooperativa Tabacchicoltori di Bassano del Grappa. Tra concessione speciale e concessione di manifesto esisteva una differenza sostanziale, che penalizzava incomprensibilmente quest’ultima e in definitiva i coltivatori del Canale di Brenta, già di per sé svantaggiati per altre condizioni gravose e difficili, non solo di carattere socio-economico, ma anche per la natura fisica del territorio più aspro. Così mentre il Consorzio tabacchicoltori di Campese diventava sempre più fiorente, I‘Agenzia di Carpané (costruita nel 1957 e costata la spesa inverosimile di un miliardo) cominciava a languire e diventava sempre più inattiva. Solo dieci anni dopo, a partire dagli anni settanta, i coltivatori della valle, stanchi di tante fatiche e di tanti soprusi, cominciavano già ad abbandonare definitivamente una coltura durata quasi quattro secoli. I tentativi per rilanciare l’Agenzia tabacchi di Carpané approdarono esclusivamente all’ampliamento di posti di lavoro, senza alcuna seria prospettiva di lavorazione. Inevitabile la chiusura di questa cattedrale nella vallata. I contadini del Canale che coltivavano per concessione di Manifesto, tra il 1955 e il 1970, andarono via diminuendo, fino a scomparire del tutto. Nel 1970 entrò in vigore il Regolamento CEE che rendeva libera la coltivazione del tabacco e quindi non più sottoposta alla regolamentazione precedente. La tradizionale coltura del tabacco, nel breve volgere di un solo decennio, andò scomparendo del tutto. Per un certo periodo rimase ancora un introito complementare, occupando prevalentemente pochi anziani e quanti erano ancora attaccati a questa coltura tradizionale. La maggior parte degli abitanti, e soprattutto le giovani generazioni, hanno cercato però altre fonti di lavoro, più redditizie e più sicure. Attorno agli anni Ottanta lungo il Canale di Brenta era ancora possibile vedere qualche terrazzamento coltivato. Non costituendo la coltivazione del tabacco, da molti anni ormai, l’economia trainante del nostro paese e dell'intera valle, tramontata col passare delle vecchie generazioni, essa si è ormai del tutto spenta. Il declino dell'agricoltura, la piaga dell’emigrazione e la stessa industrializzazione hanno praticamente decretato l’estinzione di questa coltura non più in grado di competere con le possibilità economiche e le condizioni di vita offerte dall’industria.
PREPARAZIONE DEL TERRENO PER LA VANGATURA (trar su i rodài) Dopo il rigido periodo invernale, nel mese di marzo si iniziava la preparazione del terreno: le donne, munite di zappa, toglievano la "rega" raccogliendola in fasce allineate; si spargeva il "leame" trasportato con la "siliera" o nei "bugaroi". Generalmente nel mese di aprile (qualcuno vi provvedeva anche prima dell'inverno), il contadino provvedeva a "trar su i rodai": con la vanga si tracciava un solco (era mezza vangata), riponendo le zolle sempre a monte; si evitava così che la terra, a causa della pendenza dei terrazzamenti, gravasse sulle "masiere" a valle col rischio di frequenti franamenti. L'operazione della vangatura aveva in particolare la funzione di eliminare le erbe infestanti e migliorare la struttura del terreno. I rodài percorrevano in lungo gli appezzamenti, con l'aspetto di "binari" della larghezza di un metro circa.
VANGATURA E LIVELLATURA DEL TERRENO (vangàr) La vangatura vera e propria del terrazzamento, prima del trapianto, iniziava a metà maggio circa (dipendeva anche dall'andamento della stagione) e risultava tra l'altro una operazione assai veloce. Aspetto non trascurabile perché in quella fase della coltivazione i lavori sui terrazzamenti erano assai numerosi e gravosi. Questo era il lavoro più duro per il contadino. Non potendo usare l’aratro si doveva preparare il terreno con la sola forza delle braccia. La vanga girava le zolle di terra e le spianava con maestria, guidata dalla fatica e dal sudore dell’uomo. Il terreno così livellato era pronto per la piantagione delle piccole piantine di tabacco.
SEMINA (semenar su 'e vanède) Dopo i rigidi mesi invernali, si iniziava con la semina del tabacco nelle "vanede o vanese", appositamente preparate in un luogo riparato dal vento ed esposto al sole ed inumidite con il "bevarol". Per favorire la nascita e la successiva crescita delle piante, si riparava la zona con "e portee" posate sopra "e forsee". Nel mese di marzo si iniziava la preparazione del terreno: le donne, munite di zappa, toglievano la "rega", raccogliendola in fasce allineate, e le altre erbe infestanti; si spargeva il "leame" trasportato con la "siliera" o nei "bugaroi"; si tracciavano "i rodai" usando solo il "baìle" (l'aratro era ancora sconosciuto nella valle) e poi si vangava con cura meticolosa. All’inizio della primavera, circa alla metà di marzo, il capo zona passava per le contrade della Valle. Consegnava ad ogni titolare di concessione la quantità di semi necessaria per allestire il semenzaio, assegnata in rapporto al numero di piante che il tabacchicoltore avrebbe coltivato: si andava dalle seimila piante, o anche meno, alle 9, 12, 15 e anche 20 mila piante. Il seme del tabacco è piccolissimo e ne bastava qualche grammo. Per determinare con precisione la quantità di semi utilizzava un misurino, grande come un ditale. Agli inizi della primavera, a metà marzo (dalla festa di San Giuseppe) fino all'ultima settimana di maggio, cominciavano le operazioni di semina delle piantine di tabacco nostrano. Le temperature erano ancora piuttosto fresche, quando addirittura non faceva freddo. Si temevano soprattutto le gelate e le burrasche, per cui sulle aiuole dove erano stati distribuiti i semi del tabacco venivano collocati dei rami sui quali si stendevano dei teli: in genere le stesse coperte (juta) usate per il trasporto del tabacco (ricavate dai sacchi di riso, della farina o del frumento). Una volta nate le piantine, per farle crescere rigogliose e in fretta, si faceva il "bevaron": le piantine venivano annaffiate con acqua mescolata a solfato ammonico (sali), a letame oppure urina; qualcuno usava la pollina. L'operazione richiedeva una certa avvertenza per non bruciare le piantine. Gli anziani raccontano che il giovedì della Settimana Santa, al Gloria della messa, si scendeva al fiume per lavarsi il viso in segno di penitenza e purificazione. In ogni famiglia, poi, si provvedeva a riempire qualche botte con l'acqua del fiume che veniva in seguito utilizzata per annaffiare le aiuole del tabacco. Dagli anni Sessanta, anziché assegnare i semi, cominciarono a portare le piantine e con un camioncino passavano di contrada in contrada per assegnare le piante richieste. A fine stagione, quando si portava il tabacco alla pesa e si otteneva il compenso della stagione di lavoro, veniva trattenuta la somma corrispondente al costo delle piantine (la disponibilità di denaro era ancora un privilegio di pochi).
TRAPIANTO DELLE PIANTINE (impiantàr) Ogni terrazzamento veniva contrassegnato con la "bifa" o "bandone" sul quale era segnato il numero di licenza e dell'appezzamento. Nei primi giorni di giugno si iniziava il trapianto: era quasi un rito al quale partecipava tutta la famiglia. Il capofamiglia, preso in spalla il "cristo o misura", tracciava linee ortogonali tra loro. Sui "posti", all’incrocio delle linee, le donne, armate di "caecia" riponevano le piantine (che ormai avevano raggiunto l’altezza di otto-dieci centimetri) e le abbeveravano con un po' d'acqua trasportata dalla Brenta col "bigòl". Risultavano così dei filari regolari della larghezza di circa sessanta centimetri l’uno dall’altro.
RINCALZATURA O SARCHIATURA (dar tera) Non appena le erbe infestanti cominciavano a crescere, si procedeva alla zappatura per eliminarle e per rincalzare le piantine che ormai avevano raggiunto l’altezza di quindici-venti centimetri (ossia veniva tirata su la terra per tenerle dritte e difenderle dal vento). In quell’occasione si concimavano le piantine con il "pocio", liquame dei gabinetti (latrine). Si controllava la presenza di eventuali parassiti come i "vermi", che rodevano il colletto delle piante o le "sucaroe" (grillotalpa), che intaccavano le radici. In tal caso si sostituivano immediatamente le piante con altre, le "rimesse", trapiantate appositamente in più rispetto al numero consentito e se non venivano utilizzate dovevano essere sradicate e distrutte, pena multe salate. Il capozona della "Regia" con uno o più funzionari si presentava per la "conta" delle piante. Nel caso ce ne fossero più del lecito, quelle eccedenti dovevano essere sradicate e distrutte. Talvolta si scavavano delle buche che servivano per trattenere l'acqua, soprattutto nei campi in pendenza, come lo sono in gran parte quasi tutti i terrazzamenti.
CIMATURA E ASPORTAZIONE DEI GERMOGLI (simàr e rabutàr) Giunte ad una certa altezza (circa quaranta-cinquanta centimetri), le piante venivano cimate, togliendo la parte più alta. Questa operazione permetteva lo sviluppo delle foglie rimaste nello stelo, o gambo. In genere rimanevano tre o quattro corone di foglie, con una decina delle stesse per pianta. Molto presto questa reagiva con l'emissione di germogli, i "rabuti", che dovevano essere subito tolti. Il "rabutar", lavoro piuttosto monotono, era la mansione delle donne e dei bambini.
ASPORTAZIONE DELLE FOGLIE PIU’ BASSE O SECCHE (repuimento) Un altro lavoro prima della seconda verifica da parte degli addetti della "Regia" era il "repuimento", cioè l'asportazione delle foglie basali che venivano eliminate perché di poco valore. Un tempo questo lavoro veniva fatto dalla Finanza per evitare il contrabbando. Questa operazione richiedeva l’aiuto reciproco di varie famiglie coltivatrici che a turno si aiutavano a ripulire le foglie più basse, piccole o brutte, lasciando sullo stelo le più belle e sane, che venivano contate dall’addetto del Monopolio. Le foglie tolte venivano gettate in una buca appositamente scavata in un angolo dell’appezzamento stesso, tagliuzzate con le vanghe e sepolte per evitare che venissero usate come contrabbando. Tutto ciò avveniva sotto lo sguardo vigile della Finanza. Ormai era tutto pronto per il secondo controllo delle foglie. Infatti la consegna al magazzino era "per foglia", si doveva cioè consegnare il numero esatto di foglie stimato nell'operazione di conteggio. L'operazione avveniva contando le foglie di ogni singola pianta di un numero di file prese a campione. Veniva quindi fatta una media in base alla quale veniva fissato il numero delle foglie che dovevano essere consegnate al magazzino. Se non veniva fatta la consegna esatta bisognava risarcire. Evidentemente al coltivatore conveniva consegnare al magazzino il numero preciso di foglie di tabacco.
RACCOLTA O VENDEMMIA (vendemàr o tor su tabacco) Verso la fine di settembre le foglie cominciavano a maturare, specie le più basse. Iniziava così la vendemmia. Si iniziava dal basso, poiché erano le foglie della corona più bassa quelle che giungevano prima a maturazione. Successivamente era la volta del "fior" o "prima", cioè le foglie più alte, più grandi e più pregiate. Quindi si passava alla "seconda". Sul campo poteva rimanere qualche pianta non ancora giunta a completa maturazione, i "gambarei". Il tabacco raccolto veniva predisposto ai bordi del campo in "carghe", con i "bugaroi", pronte per essere portate a casa, per lo più a spalla.
Il Nostrano del Brenta Si coltivi il "Nostrano del Brenta" suonavano gli ultimi contratti fra coltivatori della Vallata e l’ormai morente Repubblica di Venezia (Trattato di Campoformido del 18 ottobre 1797)! Il "Nostrano del Brenta" è una pianta di bassa statura, molto resistente all’azione del vento, di notevole aroma e rusticità: una varietà di tabacco, spuntata dopo un secolo di lavorazione, selezionata da una terra avara che, quando vuole, sa riservare, tra i sudati frutti che produce, qualche dono vitale. Più tardi, studiosi e tecnici avrebbero distinto tre tipi colturali: il Cuchetto, pregiato per il suo aroma, ma ben presto abbandonato perché troppo delicato; l’Avanetta, dalla foglia piccola, ma di buona qualità, nelle due forme liscia e bollosa; l’Avanone, molto produttivo, ma di pregio inferiore, detto anche Campesano dal paese di Campese, dove veniva coltivato da lungo tempo. Da ricordare anche il Nostrano Gentile, un ibrido, simile all’Avanone, ma con un numero più elevato di foglie.
MACERAZIONE (metare in màsara) A casa, il tabacco veniva messo immediatamente in "màsara", per essere portato ad ingiallimento mediante fermentazione. Le foglie cioè venivano accatastate, in soffitta o nelle stalle, con la punta della foglia rivolta in alto e la costa verso l'esterno. Nell'arco di qualche giorno, constatato il giusto ingiallimento raggiunto, si procedeva alla cernita delle foglie, cioè a "sernir". Si passavano le foglie una per una, mettendo da parte quelle non ancora pronte e distinguendo le altre a seconda della grandezza. Bisognava controllare sovente la giusta macerazione per evitare che andassero a male o marcissero. Nei locali si respirava un‘aria pesante per il forte odore del tabacco.
ESSICCAZIONE (picàr sui smussi) Quando le foglie erano diventate tutte gialle, si portavano sulle soffitte per appenderle sugli smussi (listelli lunghi tre-quattro metri) in modo che si essiccassero all’aria. Disteso uno "smusso" per terra, si passava a "picar", stendendovi sopra le punte di due o tre foglie per volta e sovrapponendone gradualmente le punte senza dimenticare di fissare con lo "speo" gli ultimi due gruppi di foglie. Lo "smusso" così pronto veniva collocato sui "teari", telai per l'essiccazione, nelle soffitte o nelle stanze alte dell'abitazione. Dopo una quindicina di giorni, per completare l’essiccazione, le foglie venivano girate dall’altra parte, sovrapponendo un altro listello e rovesciando il tutto. Periodici controlli erano necessari per verificare l'andamento dell'essiccazione, al fine di evitare l'ammuffimento. Dopo un mese circa, ad essiccazione quasi ultimata (tutte le foglie erano completamente marrone e la costa centrale doveva essere ancora un po’ morbida), si prendeva per mano smusso per smusso, rovesciando il tabacco in catasta, "in banca", per il raggiungimento del giusto grado di umidità e per poterlo lavorare senza romperlo.
CERNITA FOGLIE E PREPARAZIONE DEI MAZZI (stiràr e far mazzi) Nel tardo autunno si faceva la cernita. Le foglie, distinte in base alla grandezza e alla qualità, venivano stese con cura in "massi" di 50 foglie, legati con spago, rafia o anche con le scorze del tiglio. Con le foglie colpite dalla tempesta, che aveva reso il tabacco "rosto", si facevano dei mazzi a parte. Queste operazioni venivano eseguite generalmente nella stalla, in più persone, da parte delle donne. Le foglie venivano stese delicatamente con la mano, ma si racconta che talvolta alla stiratura si procedeva addirittura con il ferro da stiro a brace. Si rifacevano le "banche" con i mazzi ben allineati e pronti da consegnare al Monopolio di Stato a Carpané.
ESTIRPAZIONE STELI (cavar i gambùgi) L’ultima operazione all’aperto consisteva nel togliere gli steli delle piante di tabacco rimasti negli appezzamenti dopo la vendemmia. Sovente era motivo di gara sportiva tra i giovani. Vinceva chi ne toglieva di più in meno tempo. Una volta tolti dal terreno, venivano violentemente sbattuti tra loro per togliere la terra e ammucchiati in piccoli covoni per poi bruciarli a primavera. Intanto l’inverno con la neve si avvicinava... e i lavori erano finiti!
La coltivazione e la vendita del tabacco erano severamente controllate dallo stato che, per legge, se ne era riservato il monopolio. Per arrotondare i magri guadagni, si ricorreva allora al contrabbando. Era questa un'attività da tutti considerata lecita. Le limitazioni imposte dal monopolio erano infatti avvertite come un'indebita intrusione dello Stato nella vita familiare, quasi una rapina, per cui riuscire a violare la legge e frodare lo Stato era quasi un vanto. Forse questo atteggiamento dipendeva anche da un senso di sfiducia e di delusione nei confronti dello Stato e dal rimpianto per l'amministrazione austriaca, rigida ma onesta, e ancora prima per quella veneta. Il lavoro del "contrabandiero" non era un mestiere per diventare ricchi, ma per vivere meno poveramente. Le attività più praticate contro la legge erano: fare la "graspa", coltivare di nascosto qualche pianta di tabacco o procurarselo di contrabbando (tabaco da trodi), cacciare di frodo, senza permesso o con mezzi proibiti, procurarsi e usare saccarina anziché zucchero, uccidere più maiali e dichiararne uno solo, uccidere il vitello e venderlo "de frodo", senza pagare il dazio. Attraverso sentieri e passaggi talora impraticabili, noti solo a loro, sfidando la stretta sorveglianza dei finanzieri, i contrabbandieri trasportavano merci varie, ma soprattutto tabacco. A volte perdevano il carico: dovevano abbandonarlo per riuscire a scappare evitando di essere colpiti o portati in prigione. A volte nella fuga per passi pericolosi ci lasciavano la vita.
LE DONNE NEL CONTRABBANDO Le condizioni estremamente difficili di una gente che ha conosciuto la miseria, la fame e la disoccupazione e per questo costretta ad abbandonare in successive emigrazioni di massa la propria terra, sognando altrove benessere e ricchezza, non hanno sradicato dalla propria terra e valle queste popolazioni di valligiani e chi è andato lontano ha sempre sperato di potervi ritornare. Al periodo più recente, quello del dopoguerra, sono pure legate le vicissitudini di tante donne, sole ad allevare una prole numerosa, perché i mariti in terra straniera lavoravano o cercavano fortuna. Con un carretto, chi poteva, di solito con una malandata bicicletta o anche a piedi, scendeva nella fascia pedemontana e alla pianura (a Bessica di Loria, a Castelfranco, a Scaldaferro, a Pozzoleone e oltre), contrabbandando il tabacco e risaliva con un sacco di farina o altri generi alimentari di prima necessità. Oppure percorreva la Valsugana in treno o con mezzi di fortuna raggiungendo Borgo, Levico, Calceranica, Pergine e Trento per riportare a casa qualche manciata di fagioli ed altre mercanzie. Spesso le donne trasportavano tabacco nascosto nei lunghi vestiti, fingendo uno stato di gravidanza o una grassezza particolare.
LA PRETURA DI VALSTAGNA E IL CONTRABBANDO DI TABACCO Valstagna era diventata sede di Pretura con la Legge 3 luglio 1871. Era competente per territorio sui comuni del canale di Brenta: Campolongo (che comprendeva anche la frazione di Campese) con 1483 abitanti, Cismon con 1890, San Nazario con 2529, Solagna con 1627 e Valstagna con 3104, per complessivi 10.633 abitanti. La prima sentenza risale al 18 ottobre 1871, a tre mesi dall’istituzione della nuova sede pretorile. I fatti contestati risalivano però al 1867, dopo l’annessione del Veneto alla madre patria. Il primo caso di contravvenzione è del 2 ottobre 1867: Domenico Bof di San Nazario era stato accusato di fraudolenta essiccazione di tabacco.
LA NORMATIVA SULLA COLTIVAZIONE E VENDITA DEL TABACCO NEGLI ANNI 1871-1875 La coltivazione e la vendita del tabacco erano severamente controllate dallo Stato che se ne era riservata la privativa (Legge sulla Privativa dei sali e tabacchi del 15 giugno 1865). Le pene del contrabbando (art.24): "il contrabbandiere sarà punito colla perdita dei generi presi in contrabbando, e dei veicoli, cavalli, barche, e altri mezzi di trasporto.., e inoltre con una multa fissa di lire 51, e con una multa proporzionale alla quantità del genere nella seguente misura: per il tabacco greggio da lire 20 a lire 50 per ogni chilogrammo, e per quello lavorato da lire 20 a lire 60; pei sigari di Avana o di qualità somigliante da lire 20 a lire 60 per ogni chilogrammo". Tra i casi di contrabbando erano elencati: le foglie di tabacco conservate e trasportate senza bolletta di pagamento, di deposito o di circolazione. Le sanzioni riguardavano "quelli che producono, fabbricano o preparano tabacco senza avere adempiute le condizioni prescritte dalla legge e dai regolamenti". Le istruzioni cd obblighi imposti ai coltivatori erano imposizioni severe e meticolose, circa la semina, la piantagione. la verifica, la raccolta, la conservazione, la consegna al Magazzino. Norme e regolamento gravavano pesantemente sul coltivatore.
PROCESSI PENALI CONTRO I CONTRABBANDIERI DI TABACCO Non c’era famiglia del Canale di Brenta che non cercasse di arrotondare, con il contrabbando, i magri proventi derivanti dal prezzo del tabacco imposto dal governo. Ogni componente faceva la propria parte, senza distinzione di sesso o di età, compresi i ragazzi. "Nazzario Gheno di San Nazario, 16 anni, nella notte tra il 20 e 21 febbraio 1868, viene sorpreso dalla Finanza, a Bassano, nel "punto detto le Fosse", alla fermata del "legno di Posta". Nel 1872 viene condannato ad una multa fissa di 51 lire e a 100 di proporzionale." Contrabbandare diventa una necessità per tutti, compresi i soldati. A Paolo Vialetto detto Gagliardo di Campolongo, ventisettenne soldato in congedo provvisorio, sorpreso nella notte del 17 ottobre 1869 con due cartocci di tabacco in polvere sotto la giubba, il pretore di Valstagna comminerà una multa fissa di 51 lire e 60 di proporzionale, che sconterà con 37 giorni di reclusione. Francesco Ceccon detto Dal Morto finisce sotto processo perché nella sua coltivazione, in contrada Crocetta di San Nazario, vengono scoperti "37 germogli o rebutti già rinati e di una foglia cadauno". Viene condannato, il 20 marzo 1872, ad una multa fissa di 51 lire e a 74 di proporzionale. Il suo ricorso in Appello ebbe esito positivo e la sentenza modificata con un non darsi luogo a procedimento. Pietro Costa detto Cacciòla, originario di Valstagna, aveva messo a coltura alcune "pezze" di terra in località Coreggi, a ridosso della Val di Toffano a Campolongo. Si ritrovò, il 14 febbraio 1872, con una pesante condanna a lire 51 di multa fissa, più una proporzionale di altre 226, per aver coltivato 113 piante in più (le "rimesse", piante supplementari che sarebbero appunto servite per "rimétar", cioè per sostituire quelle che eventualmente non avessero attecchito o che fossero state danneggiate; era severamente proibito portarle a maturazione), rispetto alle 1713 della precedente verifica. Condanne erano comminate per chi aveva raccolto i rimasugli attaccati al gambo della pianta di tabacco, le cosiddette "recete" che venivano utilizzate come tabacco da fiuto per uso personale, oppure per contrabbandarlo. Per molti braccianti non c’era altra scelta per sfamare i figli che il contrabbando. Gli uomini. in attesa di un lavoro stagionale all’estero, per lo più negli stati dell’Impero austro-ungarico, in lavori ferroviari, oppure come boscaioli, carbonai, tagliapietra, si davano al contrabbando. Le accuse: trovato in possesso di 6 ettogrammi di tabacco; ... di 3 kg di tabacco in foglia: ... di 500 grammi di tabacco da fiuto; ... di 600 grammi di tabacco in foglia.
Dalle contrade del fondovalle i contrabbandieri, seguendo i ripidi sentieri, risalivano l’Altopiano oppure, attraversato il fiume, scavalcavano il Grappa per raggiungere la pianura. Erano questi i "trodi del tabacco", come ancora li chiamano i nostri vecchi. Nel versante destro orografico della Valbrenta questi sentieri sono tra loro collegati da un itinerario che taglia trasversalmente le pendici dell’Altopiano: l'alta via del tabacco. Dalla chiesa di Costa, ci si inoltra tra le case per prendere la mulattiera che, parallelamente alla strada comunale, si dirige verso sud. Incrociata la strada asfaltata a contrada "Cavai", la si segue per 500 metri fino a "Giara Modon" (segnale fermata bus). Passando tra le case di quest'ultima, il sentiero si inerpica poi fino al "Cason de Barbarossa". Si continua ora con qualche saliscendi, rimanendo sostanzialmente in quota. Oltrepassata la valle di Sasso Stefani con il sentiero n. 783 (possibile collegamento con Sasso Stefani), si incontrano numerose vecchie case (possibile collegamento con San Gaetano) poste sui terrazzamenti, per entrare infine nella valle dell'Olier (possibile collegamento con San Gaetano), in cui ci si inoltra fin poco oltre l'antro del "Covol grande". Si risale per l'opposto versante fino al costone delle "Casarette", da cui si ridiscende (trascurare, al bivio, il sentiero che continua ad attraversare verso "Piangrande") fino ai primi terrazzamenti di Valstagna. Abbandonato il sentiero che scende (possibile collegamento con Valstagna), si riprende la traversata, si incrocia il sentiero 781, lo si scende per un breve tratto (possibile collegamento con Valstagna), ma si continua poi tenendosi in quota a ridosso della case più alte di contrada "Mattietti", fino ad arrivare al terzo tornante della strada che da Valstagna porta a Foza. Si scende al secondo tornante (possibile collegamento con Valstagna) e si prosegue per la strada bianca di fondovalle fino alla "Calà del Sasso". Percorsone il primo tratto, la si abbandona per salire a sinistra fino ad incrociare, sul versante opposto, una mulattiera. La si scende per breve tratto (possibile collegamento con Valstagna), si lascia anche questa e si riprende in quota attraversando tutto il versante della Val Stagna fino a riportarsi nella Valle del Brenta (altri due bivi in cui trascurare i sentieri che scendono; possibile collegamento con Valstagna). Ci si abbassa lungamente per un ripido sentiero fino a non molta distanza dal fondovalle e si riprende la traversata. Incrociata la mulattiera di Oliero di sopra (sentiero n.773), si scende fino ad un bivio (possibile collegamento con Oliero di sopra), la si abbandona e si prosegue verso sud, passando per il parco delle Grotte di Oliero, fino alla mulattiera di Oliero di sotto (sentiero n.771: possibile collegamento con Oliero di sotto). Si continua per questa fino a dove essa abbandona il fondovalle. Proseguire invece per questo; dopo un breve tratto si prende a sinistra risalendo il versante fino alle case abbandonate di "Beldre" e quindi all'incrocio con il sentiero n.769. Si scende per questo fino al costone della Val Tornà, dove lo si lascia (possibile collegamento con Tovi) per proseguire in quota, con vari saliscendi, fino a portarsi sul versante soprastante l'abitato di Campolongo. Arrivati ad una strada bianca, la si lascia al tornante, si incrocia subito dopo una mulattiera (possibile collegamento con Campolongo), più avanti una seconda (sentiero n.765: possibile collegamento con Campolongo), infine un'altra strada bianca. La si risale fino al successivo tornante per prendere il sentiero che si inerpica fino ad una casa abbandonata. Ricomincia qui il saliscendi in quota che conduce al versante sopra l'abitato di Campese. Incrociato il sentiero n.763 (possibile collegamento con Campese), lo si risale per abbandonarlo subito dopo e continuare fino alla strada forestale che taglia tutto il versante fino al paesetto di Caluga. Al bivio, in centro al paese, si prende la strada a sinistra (Vallison) e, dopo un breve tratto, un'altra che risale a destra. A fianco di un cancello ricomincia il sentiero, che scende per il versante opposto. Ad un bivio, a sinistra fino all'eremo di San Bovo. Si torna per la mulattiera d'accesso alla chiesetta e, al successivo bivio, si scende per il sentiero che porta, nel fondovalle, alle case di Sarson. Tra queste (dopo il semaforo a sinistra), il sentiero scende sulla riva del Brenta, che segue per un lungo tratto, abbandonandola infine per portarsi accanto a Villa Cà Michiel. Si ritrova la strada asfaltata (via Fontanelle), che si segue verso sud fino all'incrocio con la provinciale. Qui una stradina riporta al Brenta, che si può ora costeggiare fino al Ponte Vecchio di Bassano. NOTA BENE: I tempi di percorrenza sono di circa 3,5 ore da Costa a Valstagna, 3 ore da Valstagna ad Oliero, 4 ore da Oliero a Bassano. L'itinerario può comunque essere interrotto e ripreso a piacimento avvalendosi dei numerosi sentieri che esso incrocia e che permettono un rapido ritorno a valle.
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Ultimo aggiornamento: 20-01-05